Intervista esclusiva al colonnello dei Carabinieri Salvino Paternò
di Francesco Speroni
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Il Colonnello dei Carabinieri Salvino Paternò, nato a Roma il 1° aprile 1961, vanta una carriera di tutto rispetto che vale davvero la pena ricordare.
Ha comandato il Plotone d'Intervento al 10° Battaglione Campania a Napoli; il Nucleo Operativo della Compagnia di Torre Annunziata; la Compagnia Carabinieri di Vallo della Lucania (SA); la Compagnia Carabinieri di Policoro (MT); il Reparto Operativo di Potenza; il Reparto Operativo di Rieti.
Dal 29 ottobre 2013 è stato posto in congedo su sua richiesta.
Attualmente ricopre questi incarichi: docente di criminalistica nei corsi di Scienze Criminologiche Forensi – Master di I e II livello – presso l'Università "La Sapienza" di Roma; docente di criminalistica nei corsi presso l'Università Telematica di Roma e l'UNINT (Università degli studi Internazionali di Roma); è Direttore Generale della Formazione presso la GM Accademy (convenzionata con UNITELMA Sapienza) relativamente ai corsi di Investigatori Privati, Guardia Giurata, vigilanza armata e non, agente di polizia locale, ausiliario del traffico e dei corsi di perfezionamento per comandanti ed ufficiali della Polizia Locale, nonché svolge il ruolo di docente nell'ambito dei suddetti corsi;
Precedentemente ha svolto l'incarico di docente di Criminalistica e Tecniche Investigative presso la Scuola Marescialli di Velletri, per conto delle Università di Firenze, Bologna e Forlì; ha la qualifica di Istruttore di Tecniche di Intervento Operativo conseguito presso la Scuola Ufficiali dei Carabinieri ed ha anche la qualifica operatore di Analisi Criminale, conseguito presso la Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia;
La mattina dello scorso 25 agosto, il colonnello Salvino Paternò ha deciso di scrivere un post sulla sua pagina Facebook in merito ai fatti di piazza Indipendenza a Roma, con specifico riferimento alla nota frase del funzionario di polizia "se tirano qualcosa spaccategli un braccio". Il post ha preso subito a circolare in rete, sui blog, ed è anche finito sulle pagine di alcuni quotidiani nazionali.
In questa sua analisi Paternò ha offerto – in punta di diritto, riferendosi agli articoli 52 e 53 del Codice Penale – la spiegazione del perché quell'ordine fosse legittimo. Naturalmente ha scritto a titolo personale, non in veste di rappresentante dell'Arma dei Carabinieri.
Passiamo dunque all'intervista.
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Colonnello Paternò, perché ha deciso di scrivere quel post?
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Quando è cominciata l'ennesima "caccia allo sbirro" orchestrata dai soliti intellettualoidi i quali, ignorando norme giuridiche e tecniche di intervento operativo e avendo vissuto quale unica esperienza rischiosa il gioco a nascondino che facevano da piccoli, hanno avviato l'opera di denigrazione. A quel punto, codice alla mano, ho tentato di spiegare per quale motivo quell'ordine, seppur "colorito" era di fatto legittimo.
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Franco Gabrielli, il capo della Polizia, sembra in disaccordo con lei. Ha detto infatti che un ordine del genere un funzionario di Pubblica Sicurezza non solo non deve darlo, ma nemmeno pensarlo.
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Penso che il divario tra le forze dell'ordine "vere" e le forze dell'ordine "che contano", si stia facendo sempre più profondo. Nella prima categoria inquadro tutti quegli uomini e donne in divisa che ogni giorno battono le strade per prevenire e reprimere reati, passano intere giornate a pedinare sospettati o con le cuffie in testa per intercettare mafiosi e trafficanti, la domenica invece di trascorrere la festività con i propri figli si ritrovano con un casco in testa a prendersi sputi e insulti da ultras tanto feroci quanto stupidi. Mi riferisco a quei fantastici guerrieri che rischiano la vita e sacrificano gli affetti, quegli eroi silenziosi che il cittadino onesto conosce e ama e il disonesto teme e odia. Nella seconda categoria, invece, inserisco i vertici, chiusi nei loro prestigiosi uffici, vicino ai palazzi del potere, la cui nomina è di natura politica e non sempre espressione di meritocrazia, termine quest'ultimo che ha ormai perso qualsiasi significato.
Con questo voglio dire che la frase di quel funzionario, di cui ne ribadisco la legittimità, è l'espressione di un poliziotto "vero", uno di quelli che vivono le emozioni nel campo di battaglia (tra cui l'umanissima paura), quelle stesse emozioni che forse chi ricopre ruoli direttivi di alto livello ha scordato… o mai provato.
Non so quanto tale deficit mnemonico sia fisiologico o quanto invece funzionale a tacitare giornalisti e politici che, ignari di leggi e procedure operative, si stracciano le vesti urlando allo scandalo. Penso però che i poliziotti, quelli "veri", debbano essere maggiormente difesi e tutelati dinanzi ad un'opinione pubblica sempre più confusa dalla disinformazione.
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Secondo lei, qual è lo stato d'animo delle forze di Pubblica Sicurezza alle quali oggi viene ordinato di effettuare operazioni come quello sgombero di Roma?
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Dato che Robocop rimane ancora un film di fantascienza (non so quanto auspicabile), le forze di Polizia sono composte da persone che, per quanto addestrate, provano emozioni umane, compassione, paura, rabbia. Sono soldati a cui vengono impartiti ordini che non possono (e non devono) sindacare, tranne che non siano palesemente illegittimi. Se, per esempio, gli viene ordinato che nessuno può oltrepassare un determinato limite, non possono far altro che bloccare chiunque tenti di farlo, siano essi ultras, o manifestanti di destra, o di sinistra, o addirittura frati francescani. Non spetta a loro il compito di mediare, trovare soluzioni alternative, sentire e accogliere le ragioni dei contestatori. Loro arrivano sul luogo dell'intervento quando le Autorità competenti hanno già espletato le loro funzioni di mediazione (o avrebbero dovuto farlo). L'addestramento e l'esperienza consentono ai reparti in servizio di Ordine Pubblico non tanto di effettuare interventi operativi risolutivi, ma soprattutto di riuscire a non accettare le continue provocazioni a cui vengono sottoposti per ore e ore. È ovvio, però, che nel momento in cui scoppia una violenta guerriglia urbana, quando ci si proietta nel caos avvolti dalla nebbia dei fumogeni correndo contro un nemico che si mischia e si nasconde tra passanti e giornalisti, lo spazio per il "bon ton" si riduce drasticamente, l'adrenalina e la paura giocano inevitabilmente il loro ruolo e può capitare di sbagliare. Errare humanum est e finché questo delicato compito sarà svolto da uomini e non da androidi, sarà impossibile evitare errori. Se poi qualche solone salottiero sempre pronto criticare quello spezzone di immagine dove vola una manganellata di troppo, ignorando beatamente cosa è avvenuto prima e dopo, pensa di fare meglio, è ufficialmente invitato ad inquadrarsi con casco, scudo e manganello in un qualunque reparto antisommossa che deve fronteggiare un disordine… allora sì che ci faremmo tutti delle grasse risate.
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Figure istituzionali dello Stato ed esponenti del Governo sostengono che grazie allo "ius soli" si otterrà più integrazione e quindi meno pericoli sociali. Cosa ne pensa?
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Non si può rispondere a questa domanda senza analizzare il pericolo del terrorismo islamico. Io ritengo che, per colpa dei soliti opinionisti da strapazzo, questi tagliagole stanno perdendo la guerra sul campo di battaglia, ma stanno vincendo quella mediatica. E così, questo manipolo di improvvisati ed improbabili jihadisti dell'Isis che, incapaci di manipolare esplosivi si fanno saltare in aria da soli, e che, non riuscendo neanche a procurarsi un'arma da fuoco ricorrono ai coltelli da cucina, vengono fatti passare come diabolici agenti dello Spectre. Seppur continueremo ancora per molto a piangere i nostri morti, la situazione va analizzata nel suo insieme, scevri da ideologie, perché solo così si potrà prendere atto che, malgrado le stragi, la loro strategia è perdente. Gli islamici occidentalizzati, su cui puntano i capi dell'Isis cercando di coinvolgerli nella guerra contro gli infedeli, sostanzialmente gli rispondono picche. La propaganda allucinogena degli imam del terrore fa presa solo sulle menti deboli di disadattati che non si sono integrati nei paesi europei che li ospitano. Ritengo quindi che l'integrazione sia l'arma vincente, purtroppo, però, allo stato attuale è solo un'utopia. È vero che l'immigrazione clandestina non è direttamente la causa del terrorismo (il jihadista non viaggia sul barcone), è però vero che permettere l'ingresso indiscriminato di maree di immigrati, fa sì che costoro siano costretti a vivere una vita di stenti ai margini di una società che inevitabilmente odieranno e che i loro figli odieranno ancora di più, rendendoli così facili prede del richiamo integralista.
Io credo che l'unica legge che ci consente di attuare un'efficace lotta al terrorismo è l'espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo (legge 31/7/2005, n. 155), anche perché taglia fuori la magistratura, spesso eccessivamente interpretativa e garantista. In base a tale normativa, quando le forze dell'ordine individuano fondati motivi per ritenere che la permanenza nel territorio dello Stato possa, "in qualsiasi modo", agevolare organizzazioni o attività terroristiche internazionali, il Prefetto (e non certo il magistrato) emette un immediato decreto di espulsione. Tale decreto, a differenza dei decreti inutilmente emessi nei confronti dei clandestini, è subito esecutivo. Basta quindi che uno straniero si pavoneggi su Facebook inneggiando alla lotta armata, o che un iman faccia proselitismo, per piombargli in casa, dargli il tempo di fare le valige e spedirlo nel suo paese di origine. E dato che, come è noto, queste persone non sono delle cime di arguzia, scoprirli, anche grazie alla collaborazione dei tanti islamici integrati, non è per nulla difficile. Piaccia o meno, questa è la norma che ci invidia l'Europa e che finora ha sventato assalti nel nostro paese.
E chiaro, però, che tale legge vale solo per gli stranieri e non per i cittadini italiani, per cui lo "ius soli", che concederebbe automaticamente la cittadinanza a tutti i figli di immigrati, renderebbe vana l'unica arma che abbiamo.
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Lei parla di integrazione, di "islamici occidentalizzati" e anche della "collaborazione dei tanti islamici integrati". Come ha recentemente ricordato il generale Mario Mori – ex direttore del Sisde – i terroristi che hanno insanguinato l'Europa in questi ultimi anni non sono beduini piombati da noi sui loro cammelli. Si tratta in larga parte di cittadini europei – in qualche caso da più generazioni – che avevano la cittadinanza ed il passaporto britannico, francese o spagnolo. Frequentavano le nostre scuole, vestivano come noi, vivevano e lavoravano in mezzo a noi nelle nostre città, non erano disperati né reietti. Eppure questo non ha impedito di far scattare in loro la molla anti-infedeli, prescritta dal Corano, trasformandoli come da un giorno all'altro in terroristi sanguinari. Se davvero esiste una distinzione tra mussulmani pacifici e mussulmani fanatici, chi ha il compito di far le pulizie in casa Islam? Mi permetto di ricordare che il presidente americano Donald Trump, nel suo ultimo viaggio in Arabia Saudita, ha detto a chiare lettere che non può essere l'occidente a rimettere ordine in casa d'altri, sferzando i sauditi – e tutti gli arabi mussulmani – ad impegnarsi affinché siano proprio loro a farsi carico di questo.
Beh, eviterei di inoltrarci nelle complesse, intrigate e dissennate vicende internazionali che ci hanno portato a questa tragica situazione. È innegabile che le responsabilità dell'Occidente siano evidenti, prima fra tutte l'incestuosa amicizia tra Usa e Arabia Saudita, per poi passare alla destituzione improvvida di dittatori ed al miraggio delle utopiche primavere arabe che hanno aperto un vaso di Pandora ingestibile. Fatto sta che oramai siamo di fatto in guerra contro questo autoproclamato "stato islamico" e bisogna prenderne atto evitando ulteriori errori.
È ovvio che "le pulizie in casa Islam" debbano farle gli stessi islamici, ma è nostro compito, se vogliamo vincere la guerra, favorirne l'integrazione e, conseguentemente, la "rieducazione", perché solo in tal modo avremo un fronte compatto che dice "no" al radicalismo religioso di stampo medievale. È altrettanto ovvio che non può essere solo l'Italia a sobbarcarsi questo arduo compito nel totale disinteresse europeo. Ma l'integrazione non è solo una parola al vento o un facile slogan, bensì l'insieme di complessi processi sociali e culturali che rendono l'individuo membro di una società di cui ne rispetta leggi, principi e valori. Ebbene, per prima cosa è materialmente impossibile integrare masse infinite di immigrati islamici senza avere la disponibilità di offrirgli un'autonoma esistenza nella collettività, per cui se non si pone un freno all'accoglienza indiscriminata e senza limiti non si potrà avviare alcuna integrazione. Inoltre, se continuiamo a far svolgere questo delicatissimo compito ad associazioni prive di requisiti e capacità, e nominiamo "mediatori culturali" squallidi personaggi che fanno l'elegiaco dello stupro, è finita prima di iniziare. L'integrazione deve essere un processo a cui devono partecipare convintamente tutti i cittadini italiani, ma come si fa ad essere tolleranti e collaborativi se la Presidente della Camera dei deputati afferma che "i migranti sono l'avanguardia del nostro futuro stile di vita"? È palese che simili atteggiamenti squilibrati creino intolleranza, tensioni e in ultimo anche forme di razzismo.
Infine, secondo me, non è tanto su presepi e crocifissi in aula che questa "battaglia culturale" va condotta, ma su valori quali la democrazia, l'uguaglianza, la libertà e soprattutto la LAICITÀ. È proprio la "laicità" l'arma vincente in chi professa la guerra agli infedeli, è su quello che bisogna maggiormente lavorare nei processi integrativi. È vero che spesso i terroristi islamici erano persone che "frequentavano le nostre scuole, vestivano come noi, vivevano e lavoravano in mezzo a noi nelle nostre città", ma erano figli di immigrati che rimproveravano ai loro genitori di aver tradito la religione, la motivazione religiosa ha acceso la miccia nei loro cervelli. Se riuscissimo a far rifiutare qualunque forma di teocrazia ed a far apprezzare l'indipendenza dell'individuo dall'autorità religiosa depositaria del diritto divino, la guerra sarebbe vinta.
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Davvero ritiene che quelli che sbarcano in Italia siano costretti a vivere una vita di stenti?
A tutt'oggi sembra che il business dell'accoglienza, almeno sotto questo aspetto, risparmi temporaneamente un destino simile a chi sbarca da noi. Certo, i migranti non si arricchiscono, ma almeno hanno un tetto sulla testa e tre pasti al giorno garantiti – un privilegio che purtroppo non tutte le famiglie italiane hanno. Altri invece si arricchiscono: Ong, Onlus, Cooperative etc sembrano fare affari d'oro, tra l'altro con denaro pubblico.
Sull'arricchimento delle Cooperative non c'è il minimo dubbio, non si tratta di buoni samaritani ma di affaristi che spesso operano in maniera bieca e senza scrupolo. Dei 35 euro giornalieri pagati dal ministero dell'interno per ogni richiedente asilo, solo 2,5 euro finiscono nelle tasche del migrante. I rimanenti li intasca la cooperativa con l'impegno, spesso disatteso e incontrollato, di provvedere a vitto, alloggio, pulizia, nonché fantomatici progetti di inserimento lavorativo. Ma pur presupponendo che tali impegni di spesa siano regolarmente assolti, il guadagno quotidiano è di almeno 10 euro al giorno per ogni migrante. Basta sommare tale cifra per tutti i migranti ospitati e i conti sono presto fatti.
Per quanto riguarda invece la "vita di stenti", è necessario fare delle precisioni. Iniziamo con il dire che alla stragrande maggioranza degli immigrati che sbarcano sulle nostre coste, NON viene riconosciuto lo status di rifugiati o asilanti e conseguentemente classificati come "clandestini". Non avendo quindi diritto di soggiornare nel nostro territorio, a tutta questa massa di persone viene notificato un decreto di espulsione, subito stracciato e buttato nel cestino dell'immondizia. Tali decreti infatti non sono esecutivi, nessuno prende i clandestini e li imbarca per i propri paesi di origine. Per cui questi esseri umani diventano "fantasmi" che girovagano in Italia vivendo nell'illegalità. Spacciano droga, si prostituiscono e, se gli va bene, vengono assunti al nero e sfruttati come schiavi.
Per quanto riguarda invece i rifugiati e i richiedenti Asilo, dopo la fase della prima accoglienza gestita dalle prefetture locali (tramite le suddette cooperative), i soggetti vengono presi in carico dallo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Qui dovrebbero seguire un percorso individualizzato di circa 6 mesi che li porti a conquistare la propria autonomia lavorativa e abitativa. Ma non è così! Non può mai essere così! A causa dell'intensificazione dei flussi migratori e della crisi che attanaglia il nostro paese, diviene pressoché impossibile conseguire quegli obiettivi. E così l'intero sistema si ingolfa e collassa su sé stesso. Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti e la vicenda dello sgombero di Roma ne è la prova. Quasi nessuno diviene "autonomo" e molti finiscono in sacche di marginalità, costretti ad occupare palazzi fatiscenti o in disuso.
Alla luce di ciò qualcuno mi spieghi che senso ha continuare a proclamare l'accoglienza indiscriminata, sapendo poi che fine faranno. Mi si spieghi perché sono considerati "buoni" gli operatori delle ONG che se li vanno a prendere direttamente dalle mani dei mafiosi libici per poi consegnarli in quelle dei mafiosi nostrani. Chi declama "accogliamogli tutti!" è uguale a chi auspica l'uso del lanciafiamme, è altrettanto stupido e parimenti criminale.
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Per concludere, vorrei farle una domanda che esula dall'argomento affrontato finora, ma sulla quale desidero avere la sua opinione: in Italia, mentre vengono giustamente ricordate stragi come quella di piazza Fontana o della stazione di Bologna, abbiamo invece cancellato dalla memoria collettiva almeno tre attacchi terroristici - fatti dai palestinesi - costati la vita a circa cinquanta persone. Parlo degli attentati all'aeroporto di Fiumicino del 1973 e del 1985, oltre all'attacco alla Sinagoga di Roma del 1982. Quando nel 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indetto la giornata della memoria per le vittime del terrorismo, nell'elenco non figurava nessuno dei morti in quegli attentati. Anche il finanziere Antonio Zara, ucciso nel 1973 dai terroristi a Fiumicino perché cercò di opporre resistenza, è caduto nell'oblio. Né a Fiumicino né in altre sedi più o meno istituzionali vi è anche solo una targa che ricordi quegli attentati compiuti dai terroristi palestinesi. Come è possibile dimenticare dei fatti del genere?
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Infatti non è possibile. Avendo vissuto per questioni, ahimè, anagrafiche gli anni di piombo, ritengo che l'interesse sullo stragismo terrorista dell'epoca sia ancora alto poiché, malgrado le numerose indagini e gli infiniti processi, le nebbie che hanno avvolto il nostro paese in quegli anni non si sono per nulla diradate.
Per quanto attiene, invece, alle amnesie sulle stragi palestinesi, senza avventurarmi in dietrologie che non mi sono consone, dico solo che spesso questioni ideologiche non ci permettono ancora di avere una memoria storica condivisa.
Voglio invece rispondere chiaramente sull'oblio nel quale è caduta la memoria del finanziere citato. Purtroppo non è l'unico caso; componenti delle forze dell'ordine che perdono la vita in servizio se ne annoverano un'infinità e costoro vengono regolarmente dimenticati. Raramente piazze, vie, edifici pubblici (che non siano caserme) portano il loro glorioso nome. Ma questo non scoraggia affatto la nostra polizia poiché è il sostegno della gente la maggior gratificazione e non le pompose celebrazioni. Malgrado lo sforzo profuso da politici e intellettuali radical chic nell'affossare l'impegno quotidiano dei tanti cittadini in divisa, nei sondaggi sulla fiducia data alle istituzioni, le forze dell'ordine rimangono indissolubilmente in pole position… con buona pace dei detrattori in servizio permanente.
E poi sa cosa le dico? Se fossi quel finanziere preferirei essere dimenticato piuttosto che il mio nome fosse usato per intitolare una stanza della camera dei deputati. Lascino pure che in parlamento su quelle targhe campeggino altri nomi… ognuno ha gli eroi che si merita.
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Francesco Speroni