ulivi

ulivi
BORGO A MOZZANO - Piano di Gioviano, SP2 Lodovica.

LETTORI SINGOLI

I PIANETI TERRESTRI cap. 1 e 2 - MERCURIO e VENERE. by Andreotti Roberto.

______________________________________________
______________________________________________
Aggiornato il 07/01/2024

Sistema solare interno alla Terra
MERCURIO & VENERE

                                                                                                                                 

Sistema solare interno è il nome che viene utilizzato per la regione di spazio che comprende i 4 pianeti rocciosi, la Luna e la Fascia principale gli asteroidi.

Composti principalmente da silicati e metalli, gli oggetti del sistema solare interno si trovano molto vicini al Sole, tanto che il raggio di questa regione è più breve della distanza che separa Giove da Saturno, circa 4/5 UA.

I quattro pianeti del sistema solare interno hanno al massimo due satelliti naturali come Marte e nessun anello planetario.
La composizione è densa e quasi totalmente rocciosa e sono pertanto detti pianeti terrestri o tellurici.


Le croste ed i mantelli sono costituiti da minerali refrattari come i silicati, mentre il nucleo è formato principalmente da Ferro e Nichel, in alcuni casi con presenza di Zolfo. 
Sono caratterizzati da una temperatura superficiale relativamente alta, dovuta alla vicinanza del Sole. Tre su quattro dei pianeti terrestri (Venere, Terra e Marte) hanno un'atmosfera abbastanza densa da generare delle condizioni atmosferiche variabili, tuttavia molto sottile se confrontata con quella di Giove o Saturno.
La temperatura elevata e l'attrazione gravitazionale del Sole hanno infatti spazzato via gli elementi più volatili (idrogeno ed elio) durante le prime fasi della formazione planetaria.
Tutti più o meno presentano crateri da impatto (Terra compresa) e caratteristiche superficiali legate ad assestamenti tettonici come rift, fosse tettoniche e vulcani.
Le dimensioni dei pianeti interni sono relativamente piccole (dai 12.756 km della Terra fino ai 3476 della Luna ) e rispetto ai pianeti giganti del sistema solare esterno il loro moto di rivoluzione è più veloce, mentre quello di rotazione è più lento un giorno su Mercurio dura 176 giorni terrestri e su Venere 117 giorni, mente Terra e Marte hanno un simile periodo di circa 24h.

Video presentazione:
Di Fabio Bellardini

I PIANETI TERRESTRI offerto da Fabio Bellardini
_______________________________________________________________
_______________________________________________________________

Gli Anelli di polvere

Due recenti studi riportano nuove scoperte di anelli di polvere nel sistema solare interno. 
Uno studio utilizza i dati della NASA per delineare le prove di un anello di polvere attorno al Sole all'orbita di Mercurio. Un secondo studio della NASA identifica la probabile fonte dell'anello di polvere all'orbita di Venere: un gruppo di asteroidi mai rilevati prima che orbitano in co-orbita con il pianeta. 

Gli scienziati hanno riassunto le loro scoperte in un documento pubblicato su The Astrophysical Journal il 21 novembre 2018.
Descrivono le prove di una sottile foschia di polvere cosmica sull'orbita di Mercurio, formando un anello largo circa 15 milioni di km e largo 4.860 km.
Questa non è la prima volta che gli scienziati hanno trovato un anello di polvere nel sistema solare interno. Venticinque anni fa, gli scienziati hanno scoperto che la Terra orbita attorno al Sole all'interno di un gigantesco anello di polvere. Altri hanno scoperto un anello simile vicino all'orbita di Venere, utilizzando prima i dati di archivio dalle sonde spaziali Helios tedesco-americane nel 2007, e confermandolo poi nel 2013, con dati STEREO . 
Da allora, gli scienziati hanno determinato che l'anello di polvere nell'orbita terrestre proviene in gran parte dalla fascia degli asteroidi, la vasta regione a forma di ciambella tra Marte e Giove dove vive la maggior parte degli asteroidi del sistema solare. Questi asteroidi rocciosi si scontrano costantemente l'uno con l'altro, facendo scivolare la polvere che si addentra più profondamente nella gravità del Sole, a meno che la gravità della Terra non trascini la polvere, nell'orbita del nostro pianeta.
All'inizio sembrava probabile che l'anello di polvere di Venere si fosse formato come quello terrestre, dalla polvere prodotta altrove nel sistema solare. Ma quando l'astrofisico Goddard Petr Pokorny ha modellato la polvere che si dirige a spirale verso il Sole dalla fascia degli asteroidi, le sue simulazioni hanno prodotto un anello che corrispondeva alle osservazioni dell'anello della Terra - ma non di Venere.
Questa discrepanza lo spinse a chiedersi se non fosse la fascia degli asteroidi, da dove viene la polvere nell'orbita di Venere? Dopo una serie di simulazioni, Pokorny e il suo partner di ricerca Marc Kuchner hanno ipotizzato che provenga da un gruppo di asteroidi mai rilevati che orbitano attorno al Sole insieme a Venere. Hanno pubblicato il loro lavoro su The Astrophysical Journal Letters il 12 marzo 2019. 
 Poiché è disperso su un'orbita più grande, l'anello di polvere di Venere è molto più grande di quello appena rilevato da Mercurio. Circa 26 milioni di km da cima a fondo e 9,6 milioni di km di larghezza, l'anello è disseminato di polvere i cui grani più grossi hanno grosso modo le dimensioni di quelli in carta vetrata grossa. È circa il 10 percento più denso di polvere rispetto allo spazio circostante. Eppure, è diffuso - e prendendo tutta questa polvere sull'anello, quello che ottieni è un asteroide di 3,2 km di diametro.
_______________________________________________________________
_______________________________________________________________

Pianeti terrestri


                                                                                                                                        


I pianeti interni. Da sinistra a destra: Mercurio, Venere, la Terra e Marte (in scala)

I quattro pianeti terrestri interni sono densi, hanno una composizione rocciosa, hanno pochi o nessun satellite, e non hanno anelli planetari.
I pianeti terrestri sono costituiti principalmente da sostanze aventi un alto punto di fusione, come i silicati, che costituiscono le croste e i mantelli, ed anche i metalli come ferro e nichel, che costituiscono il loro nucleo.
Possiedono atmosfere molto varie, densissime, rarefatte, o assenti come Mercurio o la Luna, hanno crateri da impatto e placche tettoniche, come dimostrano la presenza di rift e vulcani.
______________________________________________________
______________________________________________________

Mercurio

Mercury in color - Prockter07 centered.jpg

Dati fisici:
DIAMETRO 4.879,4 km
MASSA 55 (T=1000)
Densità 5,427 kg/dm3
Gravità 3,71 m/s2
Velocità di Fuga 4,300 km/s
Temperature -183/+452 °c
Pressione Atmosferica (tracce)
Periodo di rotazione 175,938 giorni

Parametri orbitali:
Periodo di rivoluzione 87,969 giorni
DISTANZA 0,313 / 0,459 UA media 0,387 UA
Eccentricità 0,2056 - Inclinazione 7° .
Radianza max 13.861 / min 6446 / med 9067 W/m2

( Dalla sonda MESSENGER - Credit NASA ).

Introduzione:
Mercurio (0,387 UA) è il pianeta più vicino al Sole ed è il pianeta più piccolo (0,055 masse terrestri). Mercurio non possiede satelliti naturali e le sue sole formazioni geologiche conosciute, oltre ai crateri da impatto, sono creste sporgenti o rupes, probabilmente prodotte durante una fase di contrazione avvenuta nella sua storia primordiale ( vedi sotto ).

( In foto nel dettaglio una delle RUPES prodotte dalla contrazione planetaria ).

( Mappa in falsi colori da un collage di immagini della sonda MESSENGER ).

Orbita:
Il moto di rotazione mercuriano è molto lento, esso impiega (58,65) giorni per compiere un giro su se stesso, e completa quindi tre rotazioni ogni due rivoluzioni, in risonanza orbitale 3:2, questo fa sì che la durata del giorno solare (175,938 giorni) sia il doppio della durata dell'anno (87,969 giorni).

Mercurio è l'unico pianeta del sistema solare sul quale la durata del giorno solare è maggiore del periodo di rivoluzione, ma questa risonanza legata all'eccentricità dell'orbita (0,2056) elevata hanno impedito alle forze mareali di fare in modo che Mercurio rivolgesse sempre la solita faccia al Sole, come la Luna con la Terra.
(vedi grafico a lato)

L'orbita di Mercurio è inclinata di 7° sull'eclittica.
L'orbita del pianeta Mercurio risulta essere ellittica solo in prima approssimazione, Difatti è soggetta alla precessione del perielio, e questo effetto, mise in difficoltà gli astronomi e i calcoli della fisica classica del XIX secolo, e ciò fece ipotizzare l'esistenza di un pianeta interno all'orbita di Mercurio che ne perturbasse il moto, detto pianeta ipotetico fu nominato Vulcano.

(vedi schema a lato).

Al perielio, la velocità orbitale molto elevata di Mercurio, diventa la componente predominante del moto solare apparente per un osservatore sulla superficie, il quale dapprima vedrebbe il Sole stazionare nel cielo, poi invertire il suo cammino muovendosi da ovest verso est e infine riprendere la sua traiettoria ordinaria.


Superficie ed Interno:
Il pianeta è privo di atmosfera, fatta eccezione per esili tracce di gas, in maggior parte Sodio, probabilmente frutto dell'interazione del vento solare con la superficie del pianeta.

Mappa tettonica, ovunque sul pianeta vi sono strutture da contrazione, mentre fratture estensive si trovano solo nel bacino di Caloris Planitia - In rosa i terreni ricoperti da effusioni laviche, in grigio i terreni craterizzati più vecchi ).

La superficie è molto craterizzata e presenta numerose scarpate dovute alla contrazione del pianeta, durante il raffreddamento del pianeta.
Alcuni tra i più grandi crateri di Mercurio superano anche i 200 km e prendono il nome di bacini.
Al centro di molti crateri, spesso riempiti da antiche colate laviche ancora evidenti, s'innalzano piccole formazioni montuose.

Anomalie magnetiche nei crateri di Mercurio:
Un gruppo di ricercatori guidati dall’INAF ha analizzato il campo magnetico crostale di Mercurio per studiare alcune anomalie che si collocano in corrispondenza di due crateri recenti, asimmetriche rispetto al loro centro. 
L’analisi geologica dei due crateri suggerisce che il ferro che ha registrato l’anomalia sia stato portato da un impattatore.

Isolinee del campo magnetico crostale di Mercurio sovrapposte alla carta geologica del cratere Stieglitz. L’anomalia magnetica è decentrata rispetto al cratere ma in corrispondenza del fuso da impatto (poligoni bianchi con contorno magenta) e della catena più profonda generata dall’impatto (poligono rosso). Crediti: V. Galluzzi et al./Geophysical Research Letters ).

Trovare un punto di unione tra la geofisica e la geologia planetaria è possibile e lo ha fatto un gruppo di esperti guidati da Valentina Galluzzi, giovane ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), analizzando il campo magnetico crostale del pianeta Mercurio, concentrandosi su due anomalie individuate in corrispondenza di due crateri di recente formazione. La loro peculiarità è che, pur corrispondendo ai crateri, queste anomalie non sono perfettamente centrate su di essi, bensì sono asimmetriche.

I crateri protagonisti dell’articolo si chiamano Stieglitz (struttura di 90 chilometri di diametro con picco centrale localizzata nella regione Borealis Planitia) e Rustaveli (un “bacino” di 210 chilometri con picco ad anello centrale localizzato nell’emisfero nord del pianeta). 
Chiaramente esistono altri crateri recenti sulla superficie di Mercurio, ma questi sono gli unici due che hanno permesso questo tipo di analisi e confronto. L’analisi di Stieglitz e Rustaveli ha permesso ai ricercatori di individuare una serie di ristagni di materiale fuso nella direzione di downrange.

Cratere Stieglitz (sopra) e cratere Rustaveli (sotto) di cui si riportano il campo magnetico crostale di Mercurio sovrapposto alle carte geologiche (sinistra) e i dipoli magnetici che dovrebbero indicare la posizione del materiale magnetizzato (destra). In entrambi i casi, l’asimmetria delle anomalie corrisponde con la direzione di downrange dei crateri e con la posizione del fuso da impatto (poligoni bianchi con contorno magenta). Crediti: V. Galluzzi et al./Geophysical Research Letters )

«Questo materiale fuso crea l’unica asimmetria morfologica palesemente evidente nei due crateri e le anomalie magnetiche asimmetriche si trovano decentrate esattamente nella stessa direzione. Un’ulteriore analisi di carattere geofisico, ci ha permesso di andare ad individuare la posizione esatta (avvalendoci di un errore sulla superficie di 30 km, dato dal gap di risoluzione tra le mappe delle anomalie e le basemap usate per la cartografia) del materiale magnetizzato. I dipoli magnetici così ottenuti, vanno a collocarsi nei pressi del materiale fuso, sempre nella regione di downrange», aggiunge Galluzzi.

Che alcuni elementi magnetici potessero essere portati su una superficie planetaria dagli impattori era già stato osservato sulla Luna, ma i risultati dell’articolo offrono, per la prima volta, prove osservative che gli elementi magnetici sono stati portati dagli impattatori su Mercurio.

«Su Mercurio, come osservato anche sulla Luna, gli impatti sono una delle cause della presenza di queste anomalie localizzate. La fusione dell’impattatore composto di elementi magnetici e il suo conseguente processo di raffreddamento», conclude Galluzzi, «permettono di registrare il campo magnetico e di registrare l’anomalia permanentemente nella roccia. Questo ci permette anche di affermare che la dinamo magnetica di Mercurio era attiva anche all’epoca di questi impatti (meno di 1,7 miliardi di anni fa)».

___________________________________

I GRANDI CRATERI

Caloris:
Il bacino più grande e più noto è la Caloris Planitia, dal diametro di circa 1.500 km: si tratta di una grande pianura circolare circondata da anelli di monti.
Questo bacino (in foto a lato), deve il suo nome al fatto che si trova sempre esposto alla luce del sole durante il passaggio di Mercurio al perielio e pertanto è uno dei punti più caldi del pianeta.
L'impatto che ha prodotto il bacino Caloris dovrebbe essere avvenuto dopo che la maggior parte del bombardamento era terminata, perché il numero dei crateri da impatto presenti sul fondo del bacino è minore rispetto a regioni di dimensioni comparabili al di fuori del bacino stesso. Si ritiene che formazioni geologiche analoghe presenti sulla Luna, come il Mare Imbrium ed il Mare Orientale, si siano formate all'incirca nella stessa epoca, forse indicando che c'è stato un picco di grandi impatti verso la fine della fase di intenso bombardamento. In base alle immagini della sonda MESSENGER, è stato determinato che l'età del bacino Caloris è compresa tra 3,8 e 3,9 miliardi di anni.

( In grafica l'analisi geologica del bacino Caloris - in Russo ).

L'impatto che ha creato il bacino di Caloris planitia, ha creato onde sismiche che hanno attraversato sia il nucleo del pianeta , sia correndo sulla superficie, andandosi a concentrare agli antipodi creando un terreno corrugato.

Schema degli effetti causati dall'impatto ).

Rembrandt:

Il bacino di impatto di Rembrandt è stato scoperto da MESSENGER, durante il suo secondo flyby di mercurio nell'ottobre 2008. 
Le immagini mostrano che il bacino di Rembrandt è notevolmente ben conservato.
La maggior parte dei grandi bacini di impatto su Mercurio, la luna e altri pianeti interni sono sommersi da flussi vulcanici che coprono l'intero pavimento. 
Il numero per area e la distribuzione delle dimensioni dei crateri di impatto sovrapposti sul bordo di Rembrandt indicano che è uno dei bacini di impatto più giovani su Mercurio. 

Con un diametro di 715 km è il secondo bacino d'impatto più grande del pianeta, dopo Caloris, ed è uno dei crateri più grandi del Sistema Solare.
Il cratere ha 3,9 miliardi di anni ed è stato creato durante il periodo del Grande Bombardamento Tardivo, causato dagli sconvolgimenti creati dalla migrazione dei pianeti giganti.
Il cratere prende il nome dal pittore olandese Rembrandt Harmenszoon van Rijn.

Beethoven:
Beethoven è un cratere che si trova a 20° di latitudine Sud, e 124° di longitudine Ovest, su Mercurio. Ha un diametro di 630-625 km e prende il nome da Ludwig van Beethoven . 
È l'undicesimo cratere da impatto più grande del Sistema Solare e il terzo più grande su Mercurio (dopo Caloris e Rembrandt citati qua sopra).

La zona del grande cratere Beethoven ).

A differenza di molti bacini di dimensioni simili sulla Luna , come il bacino Orientale , Beethoven non è multi-anello . Le coperture espulse intorno a parti del Beethoven hanno un aspetto tenue e i loro margini in alcuni punti sono poco definiti. 
La parete del cratere di Beethoven è sepolta dalla sua copertura di eiezioni e da materiali di pianura ed è appena visibile. 
Il pavimento del bacino è ricoperto di materiale di pianura liscia intermedia, che ha la stessa riflettanza del terreno intermedio esterno. Tuttavia, non ci sono creste di rughe o graben all'interno del bacino come quelli di Caloris.

( In grafica l'analisi delle altimerie sul fondo del cratere, le linee verde e blu sono le posizioni dei profili mostrati nei due grafici a destra ).

Spudis e Prosser nei loro studi hanno suggerito che Beethoven potrebbe essere piuttosto vecchio, il che significa che è più antico del bacino del Caloris . La profondità di Beethoven è stimata a 2,5 ± 0,7 km dai modelli di elevazione digitale derivati basati sulle immagini del pianeta di Mariner 10 . 
Questo è significativamente inferiore alla profondità dei bacini lunari di dimensioni simili, indicando che Beethoven probabilmente si è rilassato dalla sua forma post impatto. C'è anche un ampio aumento topografico nei margini di nord-ovest e sud-est di Beethoven avvenuto successivamente agli impatti secondari.

Mappa altimetrica del cratere Beethoven, le frecce indicano gli aumenti topografici ).

Raditladi:
Il bacino di Raditladi è un grande cratere di impatto ad anello di picco su Mercurio con un diametro di 263 km. All'interno del suo anello di picco è presente un sistema di canali concentrici estensivi (graben), che sono rare caratteristiche di superficie su Mercurio.
Il pavimento di Raditladi è parzialmente coperto da pianure relativamente leggere e lisce, che si pensa siano il prodotto del vulcanismo effusivo .
Le depressioni potrebbero anche essere derivate da processi vulcanici sotto il pavimento di Raditladi. Il bacino è relativamente giovane, probabilmente più giovane di un miliardo di anni, con solo pochi piccoli crateri da impatto sul pavimento e con pareti del bacino ben conservate e struttura ad anello di picco.


Questo cratere (o bacino) , l'8 aprile 2008) è stato denominato Raditladi, in onore di Leetile Disang Raditladi (1910-1971) drammaturgo e poeta del Botswana.
Raditladi è una delle caratteristiche più giovani di Mercurio.

La parte centrale di Raditladi è occupata da un grande anello di picco con un diametro di 125 km. L'anello è leggermente sfalsato dal centro geometrico del bacino nella direzione nord-ovest.
Il pavimento di Raditladi è coperto da due tipi di terreno:
- le pianure levigate
- le oscure pianure collinose . 
Le prime incassano parzialmente le pianure collinose e sono probabilmente di origine vulcanica. Questi ultimi sono presenti principalmente su una parte del pavimento tra l'anello di picco e il bordo del cratere. Le pianure collinose sono leggermente più blu delle pianure lisce.
Le aree esterne a Raditladi sono coperte dagli ejecta degli impatti relativamente blu scuro.
I massicci montagnosi dell'anello di picco in alcuni punti espongono un materiale blu brillante identico a quello sui pavimenti di alcuni crateri luminosi d'impatto mercuriani (Bright Crater Floor Deposits — BCFD), ed in Raditladi sono riconosciuti più in generale come un sottoinsieme di una forma di terreno ora chiamata cavità (vedi di seguito - ed in foto qui a lato) .

Visibili sul pavimento di Raditladi all'interno dell'anello di picco ci sono stretti canali concentrici, formati dall'estensione della superficie. Le fosse sono disposte secondo uno schema circolare di circa 70 km di diametro. Si pensa che siano graben .
Il centro geometrico del sistema di graben coincide con il centro di Raditladi ed è sfalsato rispetto al centro del complesso dell'anello di picco.
Le fosse di estensione su Mercurio sono piuttosto rare, essendo stati visti solo in poche altre posizioni:
- Bacino di Rachmaninoff , che è simile in molti altri modi a Raditladi.
- In parte del Pantheon Fossae nel bacino di Caloris.
- Sul pavimento di Rembrandt , un grande bacino.
Comprendere come si sono formati queste fosse estensive, nel giovane bacino di Raditladi potrebbe fornire un importante indicatore dei processi che hanno agito relativamente di recente nella storia geologica di Mercurio.
Esistono due principali teorie sulla formazione del graben:
1) - Il primo è che rappresentano una manifestazione superficiale di dighe ad anello o fogli di cono . Entrambi i tipi di strutture si formano quando il magma proveniente da un profondo serbatoio si intromette nelle rocce sovrastanti lungo fratture coniche o cilindriche.
2) - La seconda ipotesi sostiene che il graben si sia formato a seguito del sollevamento del pavimento causato dal peso delle pianure lisce all'esterno del cratere. Tali pianure sono effettivamente presenti a nord e ad est di Raditladi, sebbene il loro spessore ed età non siano noti.

Mappa topografica del cratere ).

L'età relativa di qualsiasi caratteristica della superficie può essere determinata dalla densità dei crateri da impatto su di essa. La densità dei crateri sul pavimento di Raditladi è circa il 10% di quella nella pianura a ovest di Caloris. La densità del cratere è la stessa sulle pianure coperte dagli ejecta all'esterno del bacino. Le pianure levigate e le pianure collinose hanno anche la stessa densità del cratere e quindi la stessa età apparente. La bassa densità di impatti all'interno del cratere indica che Raditladi è molto più giovane di Caloris e potrebbe essersi formato nell'ultimo miliardo di anni, mentre l'età di Caloris è di 3,5–3,9 miliardi di anni.

Rachmaninoff:
Rachmaninoff è un cratere da impatto su Mercurio . Questo bacino, prima ripreso nella sua interezza durante il terzo flyby della sonda MESSENGER, è stato rapidamente identificato come una caratteristica di grande interesse scientifico, a causa del suo aspetto fresco, le sue pianure interne tipicamente colorate, e le fosse estensionali sul suo fondo piatto.


La morfologia di Rachmaninoff è simile a quella del cratere Raditladi , che è uno dei bacini di impatto più giovani su Mercurio.
L'età di Raditladi è stimata in un miliardo di anni.
Rachmaninoff sembra essere leggermente più giovane.
Grazie a un innovativo modello di datazione planetaria sviluppato proprio presso l’INAF-OA di Padova, è stato possibile stabilire che il bacino è più giovane di un miliardo di anni.
Il metodo combina il conteggio dei crateri sulla superficie con il flusso di meteoriti provenienti dalla Fascia principale degli asteroidi, per effettuare una stima dell’età del pianeta sulla base degli impatti che si riscontrano sulla sua superficie.
Secondo i calcoli dell'INAF, il bacino Rachmaninoff, potrebbe essersi formato negli ultimi 3-400 milioni di anni.


La parte centrale di Rachmaninoff è occupata da un anello di picco di 130 km di diametro e un po' allungato nella direzione nord-sud. L'area al suo interno è coperta da brillanti pianure lisce rossastre, che sono di colore diverso dalle pianure esterne all'anello di picco.
È probabile che queste pianure siano di origine vulcanica perché mostrano segni di flusso.
Hanno anche superato e coperto la parte meridionale dell'anello di picco stesso.
Anche Mercurio, come recentemente si è scoperto per Venere, è stato quindi scombussolato da eruzioni vulcaniche e travolto da tempeste magnetiche.

In particolare abbiamo osservato che questo cratere ha avuto fenomeni di origine vulcanica, è caratterizzato da una superficie eccezionalmente liscia, dove un tempo scorreva lava.
Questa depressione, di 230 chilometri di diametro, presenta un anello circondato da depositi minerali brillanti che potrebbero costituire la più interessante evidenza vulcanica di Mercurio identificata finora.

L'altitudine più bassa registrata su Mercurio, 5380 metri al di sotto della media globale, si trova nel bacino di Rachmaninoff.


Le pianure lisce all'interno dell'anello di picco erano deformate da una serie di graben concentrici molto simili a quelli all'interno di Raditladi. Le fosse si trovano a metà della distanza dall'anello di picco dal centro del cratere. Rachmaninoff è il quarto cratere da impatto su Mercurio (dopo Caloris , Rembrandt e Raditladi), dove sono stati osservati tratti tettonici estensivi.
Il meccanismo di formazione del graben rimane sconosciuto ma pare certa l'origine vulcanica..

Il cratere prende il nome da Sergei Rachmaninoff , compositore, pianista e direttore russo (1873-1943).
________________________________________

Cavità:
Questa a lato, è una delle immagini a più alta qualità e più elevata risoluzione di cavità ottenute dalla MESSENGER.

L'immagine è stata fortuita, perché è stata semplicemente acquisita prendendo immagini a bassa quota, e ad alta risoluzione, di una zona qualsiasi che si trovava ad essere nel campo di vista della fotocamera.
(vedi a lato).

L'immagine fortunata Mostra il pavimento incredibilmente liscio di queste piccole cavità, che si trovano all'interno del bacino Aleichem Sholem. 
Nessun cratere a impatto è visibile sul pavimento delle cavità, anche se molti piccoli crateri si trovano nei dintorni.
La mancanza di crateri di impatto suggerisce che le cavità sono molto giovani rispetto alla maggior parte della superficie di Mercurio.

(Questa immagine mostra la parete di una cavità vulcanica situata tra il bacino di Rachmaninoff e il cratere copland. La ripida parete dello sfiato rivela strati di alta riflettanza e affioramenti in cui si formano cavità più piccole. Il muro ha anche belle scanalature in forma di gole scolpite da frane).

La loro insolita conformazione e la presenza concentrata soprattutto  all’interno dei crateri del pianeta ha suscitato l’interesse degli scienziati.
Alice Lucchetti, giovane ricercatrice dell’INAF di Padova, e il suo gruppo (tra cui fanno parte anche colleghi dell’INAF di Roma) hanno esaminato nel dettaglio queste particolari strutture localizzate in tre diversi crateri presenti sulla superficie del pianeta, riuscendo a ricavare informazioni sulla composizione degli elementi chimici presenti in essi e, quindi, ottenere indizi sulla loro formazione.

Le cavità sono strane e irregolari depressioni molto brillanti e poco profonde, solitamente presenti all’interno dei crateri di impatto, sui loro bordi e picchi centrali, la cui origine potrebbe essere legata a un meccanismo che prevede la perdita di elementi chimici volatili che si trovano sotto la superficie, un processo detto, appunto devolatilizzazione.
I tre crateri studiati dai ricercatori sono Velasquez, Dominici e Canova. Quest’ultimo nome è stato scelto proprio da Alice Lucchetti con il suo team ed è stato ufficialmente approvato dall’Unione Astronomica Internazionale in onore del celebre scultore e pittore italiano.

L’analisi delle caratteristiche e dell’intensità della luce solare riflessa dalla superficie di queste cavità è ottenuta con una particolare tecnica, detta clustering, ed ha permesso di separare l’area di ciascun cratere in porzioni più piccole di terreno caratterizzate da una specifica “impronta” nello spettro della radiazione riflessa. Confrontando i dati provenienti da questi due canali, i ricercatori hanno trovato un’ottima correlazione tra le aree individuate dalle mappe geologiche e quelle individuate dall’analisi spettrale.
Lucchetti aggiunge: “Il punto di forza del lavoro è aver scoperto che questi tre gruppi di avvallamenti sono identificati da uno spettro simile, che confrontato con gli spettri di laboratorio, ci ha permesso di scoprire novità rispetto ai lavori precedenti.
Gli spettri delle cavità sono infatti indicativi della presenza di solfuri (quali solfuri di calcio, magnesio e manganese, ipotesi già avanzata in precedenza), ma anche di pirosseni che presentano elementi di transizione, come cromo, titanio e nichel”.
Per il gruppo di ricerca il risultato ottenuto è importante perché suggerisce che le cavità non sono solo l’espressione del materiale rimasto dopo la perdita elementi chimici allo stato gassoso nella giovane crosta di Mercurio, il processo che prende il nome di devolatilizzazione, ma riflettono anche il materiale in cui si sono formati, essendo quindi rappresentativi della roccia componente la crosta primordiale del pianeta in cui si sono originati.

Nucleo:
Il suo nucleo relativamente grande e il suo mantello sottile finora non sono ancora stati spiegati adeguatamente, le ipotesi riportano la possibilità che gli strati esterni siano stati strappati via da un impatto gigantesco, oppure che all'interno della nebulosa solare non abbia raccolto sufficienti materiali leggeri vista la vicinanza con il sole.

Ma in un recente studio, i ricercatori hanno utilizzato osservazioni compiute in quattro anni dalla sonda Messenger della Nasa, in orbita attorno a Mercurio dal marzo del 2011 fino all’aprile del 2015. Messenger ha sondato il cuore profondo del pianeta, ed è proprio grazie a queste osservazioni che i ricercatoti hanno potuto determinare le anomalie gravitazionali del pianeta (aree di aumento e decremento locale della massa) e la posizione del suo polo rotazionale. Misure necessarie per comprendere l’orientamento del pianeta che, insieme ai dati di gravità, hanno permesso di rispondere alla domanda che da tempo i ricercatori si ponevano, e cioè che potrebbe nascondersi un cuore duro interno sotto quello di metallo fuso liquido nel nucleo di Mercurio.
Il nucleo metallico, che oggi sappiamo essere sia liquido che solido, di Mercurio occupa quasi l’85 per cento del volume del pianeta: questa percentuale record è enorme rispetto a quella relativa a tutti gli altri pianeti rocciosi del Sistema solare ed insieme alla possibile presenza o meno di un nucleo solido, ha rappresentato a lungo uno fra i misteri più intriganti di Mercurio oggi finalmente svelati.

( In grafica il confronto con la Terra ).

Struttura interna:

I geologi stimano che il nucleo di Mercurio occupi circa il 42% del suo volume, mentre per la Terra questa percentuale è del 17%. Una ricerca pubblicata nel 2007, ed un'altra del 2019, unita alla presenza del debole campo magnetico, suggerisce che Mercurio possieda un nucleo metallico solido circondato da un nucleo fuso elettricamente conduttore, circondato da un mantello dello spessore di 500–700 km composto da silicati. Sulla base dei dati della Mariner 10 e di osservazioni compiute dalla Terra, la crosta di Mercurio è ritenuta essere spessa 100–300 km.

Magnetosfera:
A dispetto delle sue ridotte dimensioni e del lento moto di rotazione, Mercurio possiede un campo magnetico stabile, significativo e apparentemente globale. Le misurazioni delle sonde Mariner 10 e MESSENGER indicano un'intensità pari a circa l'1% del campo terrestre e lasciano presupporre che l'intensità all'equatore del pianeta sia compresa tra 250 e 290 nT. Come quello della Terra, il campo magnetico di Mercurio è dipolare, con inclinazione dell'asse magnetico rispetto a quello di rotazione inferiore ai 5°.
È probabile che il campo magnetico sia generato con un effetto dinamo, in modo simile a quanto accade per la Terra, sebbene siano state proposte varie differenze. Il campo magnetico sarebbe generato dalla circolazione dei fluidi del mantello ricco di ferro. In particolare, i forti effetti mareali, causati dalla relativamente elevata eccentricità dell'orbita del pianeta, fornirebbero l'energia necessaria a mantenere il nucleo allo stato liquido.


Anomalie gravitazionali:
L'analisi dei dati ottenuti dai vari strumenti, ha permesso di derivare le mappe del campo gravitazionale di Mercurio.

In questa immagine sovrapposta su di un mosaico ottenuto dalla MESSENGER (Mercury Dual Imaging System), con un modello di forma determinato dallo stereo-fotoclinometro, le varie anomalie di gravità di Mercurio sono raffigurate in colori.

I toni rossi indicano le concentrazioni di massa, e sono centrate sul bacino di Caloris Planitia (al centro) e nella regione di Sobkou (a destra).

Tali anomalie gravitazionali su larga scala sono la firma delle strutture e dell'evoluzione che si trovano sotto la superficie, e si ipotizza che siano state create dai grandi impatti che hanno creato queste due regioni.

Il Polo Nord è vicino alla parte superiore della zona illuminata dal sole in questa immagine.


Osservazione:
Benché Mercurio sia assai splendente è molto difficile osservarlo perché ha il moto molto rapido, in più visto che è vicino al Sole è sempre immerso nei chiarori dell'alba o del tramonto, spesso in passato è stato scambiato per due corpi celesti differenti, è poi stato associato ad Hermes dai Greci ed al Mercurio dei Romani, il messaggero degli dei, per il suo moto rapido.

Trattandosi di un pianeta interno rispetto alla Terra, Mercurio appare sempre molto vicino al Sole (la sua elongazione massima è di 27,8°), al punto che i telescopi terrestri possono osservarlo raramente. La sua magnitudine apparente oscilla tra -2,4 e +7,2 mag , a seconda della sua posizione rispetto alla Terra e al Sole.

Durante il giorno la luminosità solare impedisce ogni osservazione, e l'osservazione diretta è possibile solamente subito dopo il tramonto, sull'orizzonte a ovest, o poco prima dell'alba verso est, oppure eccezionalmente in occasione delle eclissi totali.
Inoltre l'estrema brevità del suo moto di rivoluzione ne permette l'osservazione solamente per pochi giorni consecutivi, dopo di che il pianeta è inosservabile dalla Terra. Per evitare danni agli strumenti il telescopio spaziale Hubble non viene mai utilizzato per riprendere immagini del pianeta.

Mercurio è visibile solitamente per sei periodi l'anno, con 3 apparizioni la mattina prima dell'alba e 3 la sera immediatamente dopo il tramonto.
I periodi migliori per l'osservazione sono dopo il tramonto attorno all'equinozio di primavera per l'emisfero boreale e prima dell'alba attorno all'equinozio di autunno per l'emisfero australe, a causa dell'inclinazione dell'eclittica sull'orizzonte.

Atmosfera:
Per via della sua bassa attrazione gravitazionale Mercurio è sprovvisto di una vera e propria atmosfera come quella terrestre, fatta eccezione per esili tracce di gas probabilmente frutto dell'interazione del vento solare con la superficie del pianeta.
La composizione atmosferica è stata determinata come segue:
ElementoPercentuale
Ossigeno42%
Sodio29%
Idrogeno22%
Elio6%
Potassio0,5%
La pressione atmosferica al suolo, misurata dalla sonda Mariner 10, è nell'ordine di un millesimo di pascal.

La coda di Mercurio:
Non è vistosa e ne visibile ad occhio nudo.
Messenger ha anche osservato per la prima volta particelle ionizzate nell'esosfera di Mercurio, una sottilissima parte della sua atmosfera.

Il vento solare espelle atomi neutri dalla prossimità del pianeta rendendo misurabile una coda fino a distanze di oltre un milione di chilometri, composta principalmente da atomi di sodio
Questi atomi (idrogeno, elio, sodio, potassio, calcio e altri) vengono allontanati rapidamente da Mercurio dalla pressione della radiazione solare e ionizzati dalla stessa formando una lunga scia simil-cometaria di atomi soffiata nella direzione opposta al sole.
La loro quantità varia durante il giorno e la notte, con gli effetti del campo magnetico e del vento solare.


Nella foto sotto, di Andrea Alessandrini, la coda lunga oltre 2,5 milioni di chilometri, è dovuta alla presenza di atomi di sodio nell’atmosfera del pianeta, che vengono liberati ed eccitati dalla radiazione solare.

La NASA, pubblica lo scatto di Andrea Alessandrini come Astronomy Picture of the Day di mercoledì 8 luglio 2020 ).

Ghiaccio ai poli:
L'osservazione radar dal radiotelescopio di Arecibo ha rilevato delle formazioni particolari all'altezza dei  2 poli, molto riflettenti, molto simili a quelle che si ottengono osservando oggetti ghiacciati all'esterno del sistema solare.
I valori riflessi osservati sono compatibili con la presenza di ghiaccio coperta da un sottile strato di regolite, non sappiamo determinare lo spessore di questi depositi di ghiaccio che comunque si estendono per circa 30.000 km2, frutto forse dell'impatto di comete.
( Le zone gialle sono depositi ghiacciati che restano sempre in ombra ).
Data la ridotta inclinazione della rotazione di Mercurio, i crateri ai poli conservano delle zone perennemente oscurate dalla radiazione solare e hanno permesso al ghiaccio di conservarsi per miliardi di anni.
(vedi scheda sotto)

SCHEDA DELLE ZONE POLARI:

MAPPA ALTIMETRICA DI MERCURIO:
__________________________________________________

MERCURIO STORIA
DELLE OSSERVAZIONI


(Estratto da Wikipedia e migliorato).
Il pianeta Mercurio è visibile solitamente durante sei periodi dell'anno, con 3 apparizioni la mattina prima dell'alba e 3 la sera immediatamente dopo il tramonto.
Ma comunque i periodi migliori per l'osservazione sono dopo il tramonto attorno all'equinozio di primavera per l'emisfero boreale e prima dell'alba attorno all'equinozio di autunno per l'emisfero australe, a causa dell'inclinazione dell'eclittica sull'orizzonte, che porta ad una maggiore elongazione dal Sole.

Popoli mesopotamici:
Le osservazioni più antiche del pianeta di cui si ha traccia storica sono riportate nelle tavole MUL.APIN, eseguite probabilmente da astronomi assiri intorno al XIV° secolo a.C.
Il nome utilizzato per designare l'odierno Mercurio in questi testi, redatti in scrittura cuneiforme, è trascritto come Udu. Idim. Gu\u. Ud ("il pianeta saltellante").
Le registrazioni babilonesi risalgono al I° millennio a.C. , e chiamarono il pianeta Nabu (o Nebo), dio della scrittura e quindi della saggezza nella loro mitologia.

Egizi e Greci:
Gli antichi Egizi e i Greci assegnarono a Mercurio, come anche a Venere, due nomi differenti: uno come stella del mattino, l'altro come stella della sera. Per gli Egizi alle due apparizioni corrispondevano rispettivamente Seth, un dio oscuro che veniva scacciato dalla luce accecante del Sole nascente, e Horus, un dio benigno associato alla figura del faraone e dello Stato.

Invece nella tradizione greca sono rintracciabili due coppie di nomi per il pianeta Mercurio.
La più antica, testimoniata nell'epoca di Esiodo (fine dell'VIII°, inizio del VII° secolo a.C.), consistette in Στίλβων (Stilbon, "il brillante"), per quella che era considerata la stella del mattino, e Ἑρμάων (Hermaon), come stella della sera.
Successivamente, in periodi più recenti, queste denominazioni furono sostituite rispettivamente dagli dei Apollo ed Hermes. Alcune fonti attribuiscono all'intuizione geniale di Pitagora (verso il 500 a.C.) la comprensione del fatto che si trattasse di un unico pianeta errante, altre invece propendono per un periodo più tardo, intorno al 350 a.C.
Tolomeo nel II° secolo a.C. scrisse della possibilità che Mercurio potesse  transitare davanti al Sole nelle sue: '' Ipotesi Planetarie ''. Suggerì che nessun transito era stato fino ad allora osservato o a causa delle limitate dimensioni del pianeta, troppo piccolo perché il fenomeno risultasse osservabile o perché l'evento era poco frequente.

I Romani:
I Romani , invece , chiamarono il pianeta Mercurio in onore del messaggero alato degli dei, che era anche il dio romano del commercio e dei viaggi, corrispondente al greco Hermes. Probabilmente il pianeta ricevette questo nome a causa del suo rapido moto attraverso il cielo, più veloce di quello di tutti gli altri pianeti conosciuti all'epoca.

Estremo oriente:
Nell'Antica Cina Mercurio era conosciuto come Chen Xing (辰星), la ''Stella delle Ore''. Era associato con il Nord ed era l'elemento dell'acqua nel Wu Xing. Nelle moderne culture cinese, coreana, giapponese e vietnamita si è conservato il legame con il Wu Xing e il pianeta è chiamato "la stella dell'acqua" (水星).

India:
Nella mitologia indiana Mercurio era identificato con il dio Budha, che presiedeva il mercoledì.
Nel Surya Siddhanta, un trattato di astronomia indiano del V° secolo, è fornita una stima del diametro di Mercurio con un errore rispetto al valore oggi noto inferiore dell'1%. Tuttavia tale calcolo era basato sull'inaccurata supposizione che il diametro angolare del pianeta fosse di 3,0 arcominuti, quindi tirando a cogliere, beccarono nel giusto.
Nel XV° secolo l'astronomo indiano Nilakantha Somayaji della Scuola del Kerala sviluppò un modello planetario del Sistema solare parzialmente eliocentrico in cui Mercurio orbitava attorno al Sole che a sua volta orbitava attorno alla Terra. Si trattava di un modello simile al Sistema Ticonico suggerito, indipendentemente un secolo dopo, dall'astronomo danese Tycho Brahe nel XVI° secolo.

Nordici e Norreni:
Nella mitologia germanica e norrena il pianeta e il giorno erano dedicati al dio Odino (Woden in germanico), il maggiore degli Dei di queste mitologie.

Mesoamerica:
I Maya potrebbero aver rappresentato il pianeta come un gufo o forse come quattro gufi, due che ne esprimevano le caratteristiche mattutine e altri due per quelle serali, che recavano messaggi all'oltretomba.

In epoca scientifica:
Galileo Galilei compì le prime osservazioni telescopiche di Mercurio all'inizio del XVII° secolo. Sebbene fosse riuscito nell'osservare le fasi di Venere, il suo telescopio non era sufficientemente potente da permettergli di cogliere anche quelle di Mercurio, che furono scoperte nel 1639 da Giovanni Battista Zupi fornendo la prova definitiva che Mercurio orbita intorno al Sole.
Intanto nel 1631 Pierre Gassendi era stato il primo a osservare un transito di Mercurio innanzi al Sole, secondo le previsioni fornite da Giovanni Keplero.

I Transiti:
I transiti di Mercurio osservati dalla Terra sono molto più frequenti dei transiti di Venere grazie alla ridotta distanza dal Sole e alla maggiore velocità orbitale: ne avvengono circa 13 ogni secolo. Sin dai tempi antichi il transito fornisce un'ottima occasione per condurre studi scientifici. Nel 1600 i transiti di Mercurio vennero usati per stimare la dimensione del pianeta e per calcolare la distanza tra Terra e Sole, allora sconosciuta. In epoca moderna i transiti sono usati per analizzare dalla Terra la composizione della tenue atmosfera e come valido elemento di confronto per i metodi di individuazione di pianeti extrasolari.

Le Occultazioni:
Un altro evento ancora più raro nell'astronomia è il passaggio di un pianeta davanti a un altro (occultazione) visto dalla Terra. 
Mercurio e Venere si occultano ogni pochi secoli e l'evento del 28 maggio 1737 rilevato da John Bevis all'Osservatorio di Greenwich è l'unico storicamente osservato. La prossima occultazione di Mercurio da parte di Venere avverrà il 3 dicembre 2133.

Le difficoltà insite nell'osservazione diretta di Mercurio lo hanno reso il pianeta meno studiato tra gli otto del Sistema solare. Nel 1800 Johann Schröter compì alcune osservazioni delle sue caratteristiche superficiali e affermò di aver osservato montagne alte 20 km. Friedrich Wilhelm Bessel utilizzò i disegni di Schröter e stimò erroneamente un periodo di rotazione di 24 ore e un'inclinazione dell'asse di rotazione di 70°.

(a lato la mappa di Schiaparelli).

Schiaparelli:
Negli anni ottanta dell'Ottocento Giovanni Schiaparelli disegnò mappe più accurate della superficie ed erroneamente suggerì che il periodo di rotazione del pianeta fosse di 88 giorni, uguale a quello di rivoluzione, e quindi che il pianeta fosse in rotazione sincrona con il Sole così come la Luna lo è con la Terra.

Antoniadi:
L'impegno nel mappare la superficie di Mercurio fu proseguito da Eugène Michel Antoniadi che pubblicò le sue mappe e osservazioni in un libro nel 1934.
Molte caratteristiche superficiali del pianeta, e in particolare quelle di albedo, prendono il loro nome dalle mappe di Antoniadi.

(a lato la mappa di Antoniadi).

Bepi Colombo:
L'astronomo italiano Giuseppe Colombo osservò che il periodo di rotazione era circa due terzi di quello orbitale e propose una risonanza 3:2 invece che l'1:1 prevista dalla teoria della rotazione sincrona.

Nel giugno del 1962 ricercatori sovietici dell'Istituto di radio-ingegneria ed elettronica dell'Accademia delle Scienze dell'URSS diretto da Vladimir Kotel'nikov furono i primi a eseguire osservazioni radar del pianeta.
Tre anni dopo ulteriori osservazioni radar condotte con il radiotelescopio di Arecibo dagli statunitensi Gordon Pettengill e R. Dyce indicarono in modo conclusivo che il pianeta completa una rotazione in 59 giorni circa.
La scoperta risultò sorprendente perché l'ipotesi che la rotazione di Mercurio fosse sincrona era ormai ampiamente accettata e vari astronomi, riluttanti ad abbandonarla, proposero mirabolanti ed astruse spiegazioni alternative per i dati osservativi.
In particolare la temperatura notturna della superficie del pianeta risultò molto più alta rispetto al valore atteso nel caso di rotazione sincrona e, tra le varie ipotesi, fu proposta l'esistenza di venti estremamente potenti che avrebbero ridistribuito il calore dalla faccia illuminata a quella buia, e quindi l'esistenza di una consistente atmosfera, ipotesi del tutto errata.

Successivamente, i dati raccolti dalla missione spaziale Mariner 10 confermarono la previsione di Colombo, spazzando ogni dubbio o reticenza, e confermarono pure l'esattezza delle mappe di Schiaparelli e Antoniadi.
Gli astronomi, nelle loro carte, rilevarono le stesse caratteristiche di albedo ogni seconda orbita e le registrarono, ma non dettero importanza necessaria a quelle dell'altra faccia di Mercurio a causa delle condizioni osservative scarse nel momento in cui le guardavano.

Le osservazioni dalla Terra non permisero di acquisire maggiori informazioni su Mercurio e le sue principali caratteristiche rimasero ignote finché non fu visitato dal Mariner 10, la prima sonda spaziale a visitare il pianeta. Tuttavia recenti progressi tecnologici hanno migliorato anche le osservazioni dalla Terra e, grazie alle osservazioni condotte dall'Osservatorio di Monte Wilson con la tecnica del lucky imaging nel 2000, è stato possibile risolvere per la prima volta dettagli superficiali sulla porzione di Mercurio che non era stata fotografata dal Mariner 10. Osservazioni successive hanno permesso di ipotizzare l'esistenza di un cratere d'impatto più grande del Bacino Caloris nell'emisfero non fotografato dal Mariner 10, cratere a cui è stato informalmente dato il nome di Bacino Skinakas. La maggior parte del pianeta è stata mappata dal radiotelescopio di Arecibo, con una risoluzione di 5 km, compresi depositi polari in crateri in ombra che potrebbero essere composti da ghiaccio d'acqua.

Mariner 10:
Concepito per l'osservazione di Venere e Mercurio, il Mariner 10 venne lanciato il 3 novembre 1973 e raggiunse il pianeta nel 1974, usando per la prima volta nella storia la manovra di fionda gravitazionale. La sonda effettuò il primo sorvolo il 29 marzo a una distanza minima di 700 km, fornendo le prime immagini inedite del pianeta e risultati scientifici inaspettati: la sonda registrò un campo magnetico rilevante che si pensava fosse quasi del tutto assente. Il secondo sorvolo, il 21 settembre, fu ben più lontano del primo. Si decise di risparmiare carburante per permettere un terzo sorvolo che avrebbe permesso di capire la natura del campo magnetico: se intrinseco come quello della Terra o indotto dal vento solare come quello di Venere. Il sorvolo avvenne a circa 50 000 km dalla superficie e fornì ulteriori immagini della superficie illuminata e dettagli del polo sud. Le manovre preparatorie per il terzo sorvolo non furono prive di incidenti, ma riuscirono comunque a portare la sonda statunitense alla minima distanza da Mercurio il 16 marzo 1975, quando passò a soli 327 km dalla superficie, confermando la natura intrinseca del campo magnetico e l'esistenza di una magnetosfera. La sonda abbandonò il pianeta dopo aver fotografato il 41% della superficie del pianeta, fu spenta e rimase in orbita eliocentrica.

Messenger:
La NASA, dopo oltre trentanni, lanciò nel 2004 la sonda MESSENGER il cui primo passaggio ravvicinato di Mercurio, avvenuto il 14 gennaio 2008, fu preceduto da un sorvolo ravvicinato della Terra e da due di Venere e fu seguito da tre manovre di fionda gravitazionale su Mercurio prima dell'ingresso in orbita attorno al pianeta il 18 marzo 2011. In seguito al primo fly-by di Mercurio, la sonda MESSENGER inviò a terra le prime immagini dell'emisfero "sconosciuto" di Mercurio.
La missione permise di scoprire la composizione della superficie, di rivelare la sua storia geologica, di analizzare il suo campo magnetico e di verificare la presenza di ghiaccio ai poli. La missione si concluse con il decadimento orbitale e l'impatto ad alta velocità sulla superficie, creando presumibilmente un nuovo cratere dal diametro di 16 metri.

BepiColombo:
Il 20 ottobre 2018 è avvenuto il lancio da parte dell'ESA della missione spaziale BepiColombo, così battezzata in onore dello scienziato, matematico e ingegnere Giuseppe Colombo (1920-1984).
La missione è volta esclusivamente all'esplorazione del pianeta più interno.
La missione ha l'obiettivo di approfondire lo studio del pianeta e di testare la teoria della relatività generale, consiste di due orbiter, il primo che si stabilizzerà in un'orbita con un apoermeo di 1.500 km per lo studio ravvicinato del pianeta e il secondo con un apoermeo di 11.600 km per lo studio della sua magnetosfera.
__________________________________________________
__________________________________________________

VENERE 

                                                                                                                                  
Venuspioneeruv.jpg

DATI FISICI:
DIAMETRO 12.103,6 km
Superficie 460.230.000 km2
Volume 9.2843×1011 km3
MASSA 815 (T=1000) - 4.8675×1024 kg
Densità 5,243 kg/dm3
Gravità 8,87 m/s2
Velocità di Fuga 10,36 km/s
Temperatura +462 °c
Pressione Atmosferica 92 Bar - 96,5% CO2 , 3,5% N2.
Densità Atmosferica 1.037.204 kg/m2
Periodo di Rotazione Siderale 243,0226 giorni (medio)
Periodo di Rotazione Sinodico 117 giorni - detto ''VSD''
Inclinazione dell'asse 2,6392° - Precessione circa 29.000 anni
Albedo 0.76 - Magnitudine visuale max −4.92 .

DATI ORBITALI:
Periodo di Rivoluzione 224.701 giorni - 0,615198 anni - 1,92 VSD.
DISTANZA dal sole 0,723 UA
Eccentricità 0,0067
Inclinazione orbita 3,39°
RADIANZA 2.598 W/m2

Introduzione:
Venere (0,723 UA) è per dimensioni molto simile alla Terra (diametro 12.104 km e 0,815 masse terrestri), e come la Terra, ha un mantello composto da silicati attorno a un nucleo ferroso, possiede un'atmosfera molto densa e calda e l'attività sulla sua superficie rende evidente la presenza di attività geologica interna.
Tuttavia è molto più asciutto della Terra, e la sua atmosfera è novantadue volte più densa.
Venere non ha nessun satellite naturale.
E' il pianeta più caldo del sistema solare, con temperature superficiali, giorno e notte, superiori ai 460 °c, molto probabilmente a causa della quantità di gas che provoca un forte effetto serra nell'atmosfera.

Orbita:
L'orbita di Venere risulta abbastanza circolare, con un'eccentricità inferiore all'1% e una distanza media dal Sole di circa 108 milioni di chilometri. Con una velocità orbitale di 35 km/s, Venere impiega 224,69 giorni a compiere una rivoluzione attorno al Sole mentre il periodo sinodico, ossia l'intervallo di tempo per ritornare nella stessa posizione nel cielo terrestre rispetto al Sole, è di 584 giorni. L'inclinazione orbitale rispetto all'eclittica è di 3,39º e Venere è il pianeta che più si avvicina alla Terra e in occasione delle congiunzioni inferiori quando la distanza media tra i due corpi è di circa 41 milioni di chilometri, ma in particolari occasioni può arrivare fino a 38,2 milioni di chilometri.

Rotazione:
In conseguenza della rotazione retrograda, il moto apparente del Sole dalla superficie venusiana è opposto a quello osservato dalla Terra. Nonostante il pianeta impieghi 225 giorni terrestri per compiere una rivoluzione attorno al Sole, tra un'alba e l'altra (giorno solare, Venus Solar Day, VSD) trascorrono soltanto 117 giorni terrestri perché mentre Venere ruota su se stesso in senso retrogrado, si sposta anche lungo la propria orbita compiendo il moto di rivoluzione che procede in senso opposto a quello di rotazione. Ne deriva che lo stesso punto della superficie si viene a trovare nella stessa posizione rispetto al Sole ogni 117 giorni terrestri.


Nuove misurazioni ottenute analizzando gli echi delle onde radio raccolti dall’antenna di 70 metri del Goldstone Deep Space Communications Complex nel deserto del Mojave, in California, e dall’antenna di 100 metri del radiotelescopio di Green Bank, nel West Virginia, mostrano che un giorno su Venere dura 243,0226 giorni terrestri, dunque circa due terzi di un anno terrestre. 
Tuttavia non si tratta di un valore fisso, bensì di un valore medio. 
E il motivo dipende da un fatto ben preciso, spiegano i ricercatori: la velocità di rotazione del pianeta cambia continuamente, con una differenza tra le singole misurazioni di circa 20 minuti. 
Questo probabilmente spiega perché le stime precedenti non erano in accordo tra loro.

Secondo gli autori di questo studio, la causa di questa variazione potrebbe essere la pesante atmosfera venusiana che, mentre si muove sopra la superficie, potrebbe scambiare quantità di moto con il pianeta, accelerandolo o decelerandolo. 
Un meccanismo analogo si verifica anche qui sulla Terra, ma in questo caso lo scambio di quantità di moto produce una variazione della velocità che modifica la durata di un giorno di un millisecondo. 
L’effetto di questo scambio sulla Terra è dunque ridotto, e ciò è dovuto al fatto che la nostra atmosfera è 93 volte meno massiva di quella venusiana.

Per quanto riguarda l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, il valore calcolato dai ricercatori è di 2,6392 gradi (l’asse terrestre è inclinato di circa 23 gradi rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica) – una stima migliore di un fattore 10 rispetto alle precedenti, dicono i ricercatori.

Le ripetute misurazioni radar hanno inoltre permesso di calcolare il tempo che l’asse di rotazione del pianeta impiega per compiere un giro completo (un moto millenario simile alla precessione luni-solare del nostro pianeta. Sulla Terra questo moto dura circa 26mila anni. 
Venere impiega un po’ più tempo: circa 29mila anni. 
Quanto alle dimensioni del nucleo del pianeta, il team ha stimato un raggio di circa 3.500 chilometri, dunque abbastanza simile a quello della Terra.


Atmosfera:
(grafico della concentrazione do SO2 nella zona delle nubi negli ultimi 40 anni)

L'atmosfera Venusiana è composta per il 96,5% da biossido di carbonio, mentre il restante 3,5% è composta soprattutto da azoto.

COMPOSIZIONE:
  • 96.5%  CO2 (celeste)
  • 3.5%     N2 (rosso)
  • 0.015%  SO2
  • 0.007%  Ar
  • 0.002%  Vapore H2O
  • 0.0017%  CO
  • 0.0012%  He
  • 0.0007%  Ne
  • tracce   COS
  • tracce   HCl
  • tracce   HF

  • La notevole percentuale di biossido di carbonio è dovuta al fatto che Venere non ha un ciclo del carbonio per incorporare nuovamente questo elemento nelle rocce e nelle strutture di superficie, né esistono organismi, come le piante sulla Terra, che la possano assorbire in biomassa.
    È proprio il biossido di carbonio il responsabile di aver generato un fortissimo effetto serra a causa del quale il pianeta è divenuto molto caldo e si ritiene che gli antichi oceani di Venere siano poi evaporati, lasciando una secca superficie desertica con molte formazioni rocciose plasmate dalla densissima atmosfera.
    Il vapore acqueo si dissociò a causa dell'alta temperatura e dell'assenza di un campo magnetico planetario e il leggero idrogeno è stato diffuso nello spazio interplanetario dal vento solare.



    ( A sinistra le nubi inferiori di Venere osservate con la fotocamera Ir2 a bordo della sonda giapponese Akatsuki: le parti luminose mostrano dove la coltre di nuvole è più sottile. La struttura a strisce è stata evidenziata all’interno delle linee tratteggiate gialle. A destra la struttura di scala planetaria ricostruita dalle simulazioni di Afes-Venus: le parti luminose mostrano un forte flusso verso il basso. Crediti: Hiroki Kashimura et al., Nature Communications ).
    LINK LEGGI QUI

    Onda atmosferica:
    La sonda Giapponese Akatsuki ha anche osservato per alcuni giorni un imponente onda nell'atmosfera venusiana, è apparsa, quasi stazionaria, indifferente ai venti atmosferici: inchiodata a 65 km di quota, al di sopra d’una regione montuosa del pianeta (Aphrodite Terra), salvo una lenta deriva verso il terminatore serale.
    Sulla sua natura si è ancora fermi alle ipotesi. Ma l’ipotesi più plausibile è che si tratti di un’onda di gravità, che sono fenomeni abbastanza frequenti nelle atmosfere planetarie, e si possono notare facilmente anche sulla Terra, specialmente in prossimità dei rilievi.

    Un fenomeno simile succede anche su Venere, ma con caratteristiche di composizione e densità notevolmente differente. In particolare, le onde su scala planetaria di parecchie migliaia di chilometri di estensione osservate sia nelle missioni passate, si pensava fossero dovute a fenomeni dinamici di interazione solare oppure confinate alla sola atmosfera. Le onde planetarie osservate dalla camera termica di Akatsuki, capace di vedere il contrasto termico delle nubi, risulterebbero invece sincronizzate con la longitudine del pianeta ( vedi grafico sopra ), e non con il tempo locale, con velocità molto più lente della cosiddetta veloce super-rotazione dell’atmosfera venusiana, che ha venti che soffiano a 360 km/h.


    ( L'onda di gravità osservata dalla sonda Akatsuki - by JAXA ).

    Le immagini della navicella spaziale Akatsuki svelano ciò che mantiene l'atmosfera di Venere in rotazione molto più velocemente del pianeta stesso.
    Un team di ricerca internazionale guidato da Takeshi Horinouchi dell'Università di Hokkaido ha rivelato che questa "super-rotazione" è mantenuta vicino all'equatore da onde di marea atmosferiche formate dal riscaldamento solare sul lato giorno del pianeta e dal raffreddamento sul lato notte.
    Più vicino ai poli, tuttavia, la turbolenza atmosferica e altri tipi di onde hanno un effetto più pronunciato.

    Venere ruota molto lentamente, impiegando 243 giorni terrestri per ruotare una volta attorno al proprio asse. Nonostante questa rotazione molto lenta, l'atmosfera di Venere ruota verso ovest 60 volte più velocemente della sua rotazione planetaria . Questa super-rotazione aumenta con l'altitudine, impiegando solo quattro giorni terrestri a circolare intorno all'intero pianeta verso la cima della copertura nuvolosa. L'atmosfera in rapido movimento trasporta il calore dal lato giorno del pianeta al lato notte, riducendo le differenze di temperatura tra i due emisferi. "Da quando la super-rotazione è stata scoperta negli anni '60, tuttavia, il meccanismo alla base della sua formazione e manutenzione è stato un mistero di vecchia data", afferma Horinouchi.


    Il gruppo ha notato per la prima volta che le differenze di temperatura atmosferica tra le latitudini basse e alte sono così piccole che non può essere spiegato senza una circolazione attraverso le latitudini. "Poiché tale circolazione dovrebbe alterare la distribuzione del vento e indebolire il picco di super-rotazione, implica anche che esiste un altro meccanismo che rafforza e mantiene la distribuzione del vento osservata", ha spiegato Horinouchi. Ulteriori analisi hanno rivelato che il mantenimento è sostenuto dalla marea termica - un'onda atmosferica eccitata dal contrasto del riscaldamento solare tra il lato giorno e il lato notte - che fornisce l'accelerazione alle basse latitudini. Studi precedenti hanno proposto quella turbolenza atmosfericae le onde diverse dalla marea termica possono fornire l'accelerazione. Tuttavia, l'attuale studio ha dimostrato che lavorano in modo opposto per rallentare debolmente la super-rotazione a bassa latitudine , anche se svolgono un ruolo importante alle medie e alte latitudini.

    Le loro scoperte hanno scoperto i fattori che mantengono la super-rotazione suggerendo al contempo un sistema a doppia circolazione che trasporta efficacemente il calore in tutto il pianeta:
    - la circolazione meridionale che trasporta lentamente il calore verso i poli e la super-rotazione che trasporta rapidamente il calore verso il lato notturno del pianeta.

    Un'atmosfera diversificata:
    L’analisi dei dati raccolti fortuitamente nel 2007 dalla sonda Messenger della Nasa, mentre sorvolava Venere, ha rivelato un aumento della concentrazione di azoto a circa 50 chilometri sopra la superficie del pianeta, dimostrando che l'atmosfera di Venere non è uniforme, come invece si è sempre ritenuto.

    Su Venere, gli scienziati Lawerce e Peplowski, volevano solo raccogliere alcuni dati per verificare che lo strumento funzionasse correttamente e questo fu ciò che fecero :
    - il controllo andò a buon fine e i dati che lo confermavano vennero presentati come tali.

    Lawrence sapeva di un articolo del 1962 che suggeriva come la spettroscopia di neutroni potesse aiutare a determinare la concentrazione di azoto nell’atmosfera di Venere.

    ( A lato venere ripreso dalla sonda MESSENGER ).

    L’azoto difatti è piuttosto bravo a eliminare neutroni liberi, a differenza di ciò che fanno carbonio e ossigeno, che sono tra i peggiori elementi a farlo.
    Quindi, su Venere, il numero di neutroni rilevati doveva dipendere dalla quantità di azoto presente in atmosfera.
    E guarda caso Messenger aveva raccolto proprio le informazioni che sarebbero potute servire per fare questo tipo di controllo.

    La coppia di scienziati eseguì allora una simulazione al computer, suddividendo la spessa atmosfera del pianeta in bande all’interno delle quali definì la concentrazione di azoto, e modellando realisticamente il numero di neutroni che sarebbero stati rivelati dalla sonda Messenger.
    Poi confrontò il risultato della simulazione con i dati veri, ottenuti dalla sonda, scoprendo che la corrispondenza migliore la si aveva quando l’azoto atmosferico costituiva il 5 per cento del volume, circa una volta e mezzo quello misurato nella parte bassa dell’atmosfera.
    Tutti i neutroni sembravano provenire da una regione tra circa 56 e 100 chilometri sopra la superficie, esattamente dove si era riscontrata l’incertezza più grande nella misura.
    «È stato davvero un colpo di fortuna», ammette Peplowski. Perché sussista tale aumento di azoto ad alta quota rimane un mistero.

    Concentrazione di azoto nell’atmosfera di Venere. La nuova analisi dei dati di Messenger mostra un aumento nella concentrazione di azoto al di sopra delle nubi di Venere, a circa 50 chilometri di altezza, sovvertendo l’idea di lunga data che l’azoto sia distribuito uniformemente in tutta l’atmosfera. La linea rossa è una linea di tendenza adattata ai dati di più missioni, inclusi quelli di Messenger, che sono stati raccolti tra 60 e 100 km di altezza. Crediti: Johns Hopkins Apl ).

    LINK : Chemically distinct regions of Venus’s atmosphere revealed by measured N2 concentrations” 

    Effetto serra:
    ( L'effetto serra creato dalle nubi nella bassa atmosfera di Venere e la riflessione della luce solare delle nubi solforose in quota, pur passando poca radiazione solare la temperatura è elevatissima a causa della totale riflessione della radiazione infrarossa emessa dalla superficie ).

    Le nubi oscure:
    Ciò che è curioso delle nuvole di Venere, a parte il fatto che sono diverse da qualsiasi tipo di nuvola presente sulla Terra, è che in quelle nuvole pare ci siano misteriose macchie scure, soprannominate dagli scienziati “assorbitori sconosciuti” costituite da minuscole particelle che assorbono la maggior parte dei raggi ultravioletti e parte della luce visibile proveniente dal Sole, influenzando quindi l’albedo del pianeta e il suo bilancio energetico.

    Le macchie sono state osservate per la prima volta da telescopi terrestri più di un secolo fa.
    Il loro flusso e reflusso ne modifica la distribuzione.
    È stato suggerito che le particelle di cui sono costituite siano di cloruro di ferro, allotropi di zolfo, disolfuro diossido e così via, ma nessuno di questi, finora, è stato in grado di spiegare in modo soddisfacente le loro proprietà, in termini di formazione e assorbimento.

    Le particelle hanno circa le stesse dimensioni e le stesse proprietà di assorbimento della luce, dei microrganismi trovati nell’atmosfera terrestre e gli scienziati, a partire dal noto biofisico Harold Morowitz e dall’astronomo Carl Sagan, hanno a lungo ipotizzato, senza alcuna prova a favore, che le macchie scure presenti nelle nuvole di Venere fossero costituite da vita microscopica.

    Qualunque sia la loro composizione, gli “assorbitori sconosciuti” di Venere, secondo le nuove misurazioni dell’albedo del pianeta effettuate, ne stanno influenzando il clima.
    Alcuni scienziati, hanno studiato i cambiamenti dell’albedo di Venere usando più di un decennio di osservazioni ultraviolette del pianeta, effettuate da strumenti a bordo delle sonde planetarie Venus Express, Akatsuki e Messenger, nonché dal telescopio spaziale Hubble, senza trovare una teoria che si adatti al caso in questione.

    Struttura:
    Non sono state individuate prove definitive delle attuali attività geologiche su Venere, ma si potrebbe pensare che la sua densa atmosfera sia regolarmente alimentata da eruzioni vulcaniche.

    Si ipotizza che Venere subisca periodici episodi di movimenti tettonici per cui la crosta superficiale sarebbe subdotta rapidamente nel corso di pochi milioni di anni, con intervalli di alcune centinaia di milioni di anni di relativa stabilità.
    Questo contrasta fortemente con la condizione più o meno stabile di subduzione e di deriva dei continenti che si verifica sulla Terra.

    Questa differenza è spiegabile con l'assenza su Venere di oceani, dove l'acqua agirebbe come lubrificante nella subduzione. Le rocce superficiali di Venere avrebbero meno di 500 milioni di anni poiché l'analisi dei crateri di impatto suggerisce che le dinamiche di superficie avrebbero modificato la superficie stessa, eliminando gli antichi crateri, negli ultimi miliardi di anni.

    Vulcani:
    Venere è senza dubbio il pianeta del sistema solare con la maggior quantità di vulcani: ne sono stati individuati in superficie circa 1500 di dimensioni medio-grandi, ma ci potrebbe essere fino a un milione di vulcani minori.

    (A sinistra immagine radar della Magellano - A destra una ricostruzione artistica del monte Maat).

    Vulcani attivi:
    Un nuovo studio ha identificato 37 strutture vulcaniche recentemente attive su Venere.
    Il lavoro, basato su precisissime simulazioni morfologiche ed evolutive in 3D, fornisce le prove che Venere è il pianeta più vulcanico del Sistema solare ed è un corpo geologicamente attivo.

    Nella rielaborazione tridimensionale fatta al calcolatore sono visibili due corone individuate sulla superficie di Venere. Crediti - Università del Maryland ).

    Da decenni gli scienziati si chiedono come mai, la Terra e Venere, due pianeti così simili per struttura e composizione si siano differenziati così tanto per quanto riguarda le caratteristiche della crosta. Contrariamente alla Terra, infatti, Venere non presenta una topografia globale divisa in placche e i suoi processi tettonici si manifestano quasi esclusivamente come getti di materiale caldo provenienti dal mantello che fuoriescono incuneandosi nella litosfera che à lo strato più superficiale della crosta,  sotto forma di hot spots (punti caldi).
    Le cause, potrebbero essere l’inferiore contenuto di acqua profonda e l’elevata temperatura superficiale di Venere.

    Che Venere sia un pianeta vulcanico, il più vulcanico del Sistema solare, era cosa nota.
    Quel che non si sapeva era se il pianeta fosse ancora geologicamente attivo e, in caso affermativo, quanti fossero i vulcani in attività.
    Il nuovo studio condotto dai ricercatori dell’università del Maryland e dell’Istituto di geofisica del Politecnico di Zurigo, in Svizzera, ha identificato 37 strutture vulcaniche recentemente attive su Venere. Non proprio vulcani come li intendiamo qui sulla Terra, ma soprattutto tipiche strutture anulari, chiamate corone, generate dalla fuoriuscita di materiale lavico liquido proveniente da una caldera sottostante che si fa spazio attraverso le fessure della litosfera.
    Un processo simile, qui sulla Terra, ha formato le isole vulcaniche delle Hawaii.

    La crosta, nelle zone in cui si formano le corone, sperimenta cedimenti concentrici che producono anelli con un diametro da cento fino a mille chilometri. Si conoscono più di 500 corone su Venere, molte delle quali sono localizzate sulla parte più alta delle pianure, le regioni maggiormente interessate dalla compressione della crosta.
    I firmatari dello studio propongono di studiare la morfologia delle corone con simulazioni ad altissima risoluzione e di usarla come indicatore di recenti fuoriuscite di getti di materiale magmatico con pennacchi dal mantello.

    «È la prima volta che siamo in grado di indicare strutture specifiche e dire: ‘guarda, questo non è un antico vulcano, ma un vulcano attivo oggi, forse dormiente, ma non è morto’», dice Laurent Montési, professore di geologia presso l’università del Maryland e coautore della ricerca. «Questo studio cambia in modo significativo la visione di Venere da un pianeta per lo più inattivo a uno il cui interno sta ancora ribollendo e può alimentare molti vulcani attivi.»

    Prima di questo studio, alcune indicazioni sull’inquieto stato della struttura interna di Venere provenivano dalla stima dell’età dei crateri da impatto superficiali.
    Sebbene quelli identificati su Venere siano circa quattro volte più numerosi di quelli trovati sulla Terra, essi sembrano essere molto giovani in confronto a quelli della Luna, di Mercurio e di Marte.
    La causa è proprio il costante processo di rimescolamento della superficie che cancella gli impatti antichi, un po’ come le onde del mare cancellano le impronte sulla sabbia, e porta a datare la superficie del pianeta con un’età inferiore a 500 milioni di anni, ridicolamente giovane rispetto al Sistema solare.

    Tuttavia, si pensava che le corone su Venere fossero segni di attività antica, e che Venere si fosse raffreddata a sufficienza da rallentare l’attività geologica interna e indurire la crosta al punto da impedirne il perforamento da parte del materiale sottostante.
    Inoltre, i dettagli dei processi con cui i pennacchi di lava del mantello formavano le corone su Venere e le ragioni della variazione morfologica tra le corone stesse erano oggetto di dibattito.

    La mappa globale di Venere: le corone attive sono indicate da punti rossi, i punti bianchi invece sono associati a quelle inattive. Crediti: Anna Gülcher ).

    Nel nuovo studio, i ricercatori hanno utilizzato modelli numerici che riproducono l’attività termo-meccanica sotto la superficie di Venere per creare simulazioni 3D ad alta risoluzione della formazione delle corone.
    Le loro simulazioni forniscono una visione estremamente dettagliata del processo, consentendo agli scienziati di identificare le caratteristiche presenti solo nelle corone recentemente attive.
    Il team è stato quindi in grado di abbinare queste caratteristiche a quelle osservate sulla superficie di Venere, rivelando che alcune delle differenze morfologiche fra le corone rappresentano diversi stadi di evoluzione geologica.

    «Il maggiore grado di realismo di questi modelli rispetto agli studi precedenti permette di identificare diversi stadi dell’evoluzione delle corone e di definire le caratteristiche geologiche diagnostiche presenti solo nelle corone attualmente attive», spiega Montési. «Siamo in grado di dire che almeno 37 corone sono state attive in tempi molto recenti.»

    Le corone identificate con questo metodo sono raggruppate in una manciata di località, identificando aree precise in cui il pianeta è più attivo e fornendo indizi sul funzionamento del suo interno.
    Questi risultati possono aiutare a identificare le aree più appropriate in cui collocare strumenti geologici nelle future missioni su Venere.

    LINK : Corona structures driven by plume–lithosphere interactions and evidence for ongoing plume activity on Venus 
    _____________________________


    Geologia dell'area Imdr Regio

    Traduzione da: Geology of the Imdr Regio area of Venus
    di Iván López, Lucía Martín, Piero D’Incecco, Nicholas P. Lang & Gaetano Di Achille.

    1. Introduzione

    La missione Magellano della NASA ha ottenuto una copertura quasi globale con immagini radar ad apertura sintetica (SAR) della superficie di Venere tra il 1990 e il 1994, rivoluzionando la conoscenza del nostro pianeta gemello terrestre. I dati restituiti dalla sonda Magellano hanno rivelato che la superficie di Venere è dominata dal vulcanismo ed è caratterizzato anche da un'estesa attività tettonica, tuttavia la distribuzione del vulcanismo e dell’attività tettonica suggerisce che non esiste attualmente un sistema di placche in movimento come quelli operanti sulla Terra

    Fondamentale per comprendere l'evoluzione geodinamica di Venere e l'attuale stato geologico del pianeta è lo studio dei Grandi Rilievi Topografici (LTR), province geologiche su Venere che si ritiene si siano formate in risposta alla presenza di un pennacchio di mantello o di risalita del mantello, e quindi potrebbero essere paragonabili ai punti caldi e al vulcanismo intraplacca sulla Terra. Sono siti in cui è stata proposta l'esistenza di vulcanismo recente o addirittura attivo su Venere, situazione che rende queste aree obiettivi strategici per future missioni.

    Il primo passo per studiare la geologia e l'evoluzione del LTR è quello di vincolare le strutture, i materiali e i processi che hanno dato forma alla sua superficie, per i quali l'elaborazione di carte geologiche si è rivelata uno strumento fondamentale. La mappatura geologica su scala regionale consente la sintesi delle attuali conoscenze di un'area studiata e l'identificazione dei problemi esistenti da studiare con le prossime missioni e i relativi set di dati.

    In questo lavoro presentiamo la prima mappa geologica di Imdr Regio, una delle LTR di Venere, e delle sue aree circostanti (Mappa Principale in Materiali Supplementari). L'Imdr Regio Map Area (IRMA) si estende tra 35°S-50°S di latitudine e 195°E-225°E di longitudine e copre Imdr Regio e le aree che appartengono alle pianure circostanti di Helen, Nsomeka e Wawalag Planitiae (Figure 1 e 2). Imdr Regio è stata classificata come una formazione ignea dominata dal vulcano con un diametro minimo-massimo di 1200-1400 km e un'altezza del rigonfiamento di 1,6 kmSecondo i dati geofisici e la quantità apparentemente limitata di vulcanismo, si pensa che Imdr Regio sia un giovane aumento topografico, idea poi rafforzata dalla scoperta di un possibile vulcanismo recente o addirittura attivo a Idunn Mons, un grande vulcano che domina il sud-est del grande rialzo igneo.

    (Figura 1. Mappa base utilizzata per la mappatura di Imdr Regio. Le caselle indicano la posizione degli esempi presentati nelle Fig. 3 e 4 . Mosaico SAR di Magellano rivolto a sinistra dell'area della mappa nella proiezione di Mercatore).

    Immagine in scala di grigi dell'area della mappa con i nomi delle principali caratteristiche geografiche.  Le piccole caselle bianche indicano le posizioni degli esempi in Fig 3 e 4.

    (Figura 2. Altimetria dell'area della mappa. L'intervallo tra le curve di livello è di 250 m. Le quote sono riferite al Raggio Planetario Medio (6051,84 km). Coordinate, scala e proiezione sono le stesse della Figura 1 . Record di dati topografici globali Magellan (GTDR) 4641 m v2).

    Immagine a colori che rappresenta le diverse altitudini presenti nell'area di studio.  I colori caldi rappresentano le alte quote mentre i colori freddi le basse quote.  Nell'immagine a colori sono sovrapposte delle linee che rappresentano l'unione dei punti con la stessa quota distanziati ogni 250 m.

    (Figura 3.Esempi di strutture primarie nell'area della mappa. (a) Canale nei flussi del foglio di Idunn Mons (le frecce indicano la traccia del canale); (b) Catene di pozzi nell'Olapa Chasma (la freccia indica una catena di pozzi con materiali vulcanici associati che scorrono verso SE); (c Fronti di flusso nell'Idunn Mons. I flussi luminosi si sovrappongono indicando diversi eventi effusivi nella storia del vulcano; (d) piccoli vulcani nelle pianure vulcaniche; (e) Zana Tholus, un vulcano intermedio nell'Imdr Regio. I fianchi del vulcano sono inglobato da colate provenienti da sorgenti vicine. La freccia indica la presenza di piccole valanghe di detriti di colata lavica nel basso versante orientale; (f) Terreno collinoso. Questo tipo di deposito indica la presenza di processi di collasso del fianco laterale nei vulcani. La freccia segnala le scarpate che segnalano il deposito della struttura di crollo ed i resti dell'edificio originario; (g) Cratere Sandel. Esempio di cratere da impatto con bordo chiaro e picco centrale; (h) Depositi superficiali. Polveri prodotte da impatti nelle pianure vulcaniche. Le frecce segnalano la presenza di striature di vento associate a piccoli vulcani. Tutte le immagini sono immagini Magellan SAR rivolte a sinistra in modalità normale).

    Esempi di diverse strutture formatesi durante la formazione dei materiali nell'area di studio.  La Fig 3a è un canale in materiali vulcanici dove scorre la lava.  La Fig 3b mostra catene di doline prodotte dal magma che viaggia sotto la superficie.  La Fig 3c mostra le estremità di alcuni flussi vulcanici provenienti da un grande vulcano.  La Fig 3d mostra un gruppo di piccoli vulcani nell'area.  La Fig 3e mostra la sommità di un vulcano circondato da altri flussi vulcanici.  La Fig 3f mostra un vulcano che è crollato ed è andato in pezzi.  La Fig 3g mostra il cratere prodotto dall'impatto di un grande meteorite nell'area.  La Fig 3h mostra piccole particelle trasportate dal vento che scorrono attorno ad alcuni piccoli vulcani.

    2. Metodi

    2.1. Set di dati

    La mappatura geologica e tettonica ad alta risoluzione dell'area cartografica Imdr Regio è stata effettuata utilizzando immagini radar ad apertura sintetica (SAR) in banda S Magellan della NASA a piena risoluzione con una lunghezza d'onda di λ = 12 cm e una frequenza di 2,4 GHz e dati altimetrici . L'area della mappa include la copertura in immagini SAR a piena risoluzione "F" (75-100 m/pixel) con illuminazione destra e sinistra, altimetria Magellan (8 km lungo il percorso per 20 km lungo il percorso con una media di 30 m precisione verticale che migliora fino a 10 m in aree lisce, Ford et al.,Citazione1993) e il resto dei dati ausiliari Magellan disponibili (ad esempio Emissività). Tutti i dati Magellan sono stati scaricati dal sito web USGS Map-a-Planet ( https://www.mapaplanet.org ) in un formato pronto per GIS per la sua visualizzazione e analisi. La mappa e tutti i dati utilizzati per la mappatura sono in proiezione di Mercatore, più adatti a determinare la direzione e le tendenze strutturali.

    2.2. Metodologia di mappatura

    La costruzione di una carta geologica è il primo passo per stabilire la storia geologica di una regione, che a sua volta fornisce informazioni importanti per comprendere i diversi processi che possono aver contribuito all'evoluzione geodinamica del pianeta. La metodologia che abbiamo utilizzato per la definizione di unità e strutture geologiche si basa sull'analisi geologica standard dettagliata in Wilhelms (Citazione1990) e Tanaka et al. (Citazione1994) con le avvertenze di Hansen (Citazione2000), Zimbelmann (Citazione2001), Skinner e Tanaka (Citazione2003) e McGill e Campbell (Citazione2004).

    Le caratteristiche dei dati SAR Magellan utilizzati per la mappatura geologica e le basi per la loro interpretazione sono esplorate in dettaglio nello studio di Ford et al.

    Dopo la mappatura delle strutture tettoniche, si procede poi all'identificazione delle diverse unità presenti nell'area della mappa. Le strutture primarie e le texture superficiali, insieme alla luminosità radar, aiutano a definire le unità della mappaTuttavia, una caratterizzazione robusta di queste superfici come unità geologiche, in contrapposizione alle unità geomorfiche, può rivelarsi impegnativaCiò è dovuto al fatto che i dati SAR sono sensibili alla rugosità superficiale sulla scala della lunghezza d'onda del radar (12,8 cm); le superfici più ruvide appaiono luminose, le superfici più lisce appaiono scure. È importante notare che tali variazioni sono strutturali e non si può presumere una correlazione diretta con il tipo di materiale. Ciò è molto importante in ambienti vulcanici poiché materiali di composizione simile possono mostrare una diversa retrodiffusione a causa delle differenze nella struttura dei flussi, ad esempio in risposta alla variazione del tasso di effusione o della topografiaAllo stesso modo materiali di composizione diversa potrebbero presentare valori di texture e retrodiffusione simili. Un altro fattore da considerare è che i materiali vulcanici posizionati sulla superficie di Venere sono soggetti a processi di alterazione che potrebbero portare all’omogeneizzazione della firma radar che renderà difficile determinare la struttura superficiale e mappare i contatti tra materiali più antichi di composizione e origine simili.

    I criteri utilizzati per distinguere le unità geologiche (rispetto alle unità radar) includono la presenza di contatti netti e continui; troncamento o interazione con strutture secondarie e topografia; e presenza di strutture primarie (ad esempio canali di flusso o topografia dell'edificio) che consentono una ragionevole interpretazione geologica. Alcune unità non rispettano questi vincoli, limitandone l'utilizzo nella determinazione delle sequenze stratigrafiche. Queste unità sono definite composite, in quanto potrebbero non essere stratigraficamente coerenti su tutta l'area rappresentata, e/o potrebbero essere state poste nel tempo in modo trasgressivo rispetto ad altre unità e/o strutture secondarie.

    I materiali più antichi come le tessere sono deformati in modo pervasivo, rendendo difficile la caratterizzazione dei materiali originali. Per queste unità usiamo il soprannome di "terreno" e sono definite da una trama che potrebbe implicare una storia condivisa.

    La mappatura dei contatti delle unità si basa su caratteristiche osservabili limitate, quindi è difficile seguire i contatti lungo le unità mappate e distinguiamo tra (a) contatti definiti quando è osservabile un cambiamento distintivo nelle proprietà radar del materiale (cioè contatto radar) e un altro le caratteristiche possono essere utilizzate per la definizione dell'unità: chiare relazioni trasversali, presenza di materiali strutturati (ad esempio struttura poligonale) o interazione con strutture primarie e secondarie; (b) contatti approssimativi o incerti quando i contatti sono diffusi a causa di cambiamenti di direzione del contatto o di processi di omogeneizzazione; (c) contatti graduali per la mappatura dei depositi di origine puntuale legati allo scudo.

    Il tempo è un elemento importante nelle carte geologiche, ma nel caso di Venere un problema nello stabilire le relazioni temporali nelle carte regionali deriva dall'assenza di marcatori temporali affidabili, o unità marcatrici. La correlazione delle unità cartografiche nelle mappe planetarie è tipicamente basata sulle statistiche dei crateri da impatto superficialeSebbene questo metodo abbia una certa utilità per i corpi planetari con superfici vecchie ed elevata densità di crateri (ad esempio Luna e Marte), su Venere sorgono molti problemi a causa delle caratteristiche della popolazione dei crateri Fondamentalmente, i crateri da impatto di Venere non possono porre alcun vincolo sull’età delle unità di superficie che coprono aree così piccole come quelle all’interno dell’IRMACiò rende possibile l'instaurazione di rapporti temporali relativi solo per quelle unità che sono in contatto diretto o con strutture che fungevano da creatori temporali locali. Questi vincoli temporali sono applicabili solo localmente e non possono essere estesi in modo robusto su tutta l’area della mappa, soprattutto quando la maggior parte delle unità sono di natura composita. Stabiliamo quindi una Sequenza di Unità di Mappa (SOMU) per l'area della mappa che esprimerà tutte le incertezze che esistono riguardo alle relazioni temporali, e dove le relazioni temporali tra materiali che non sono in contatto sono espresse come frastagliate per indicare l'incertezza.

    3. Risultati

    3.1. Strutture

    Nell'area della mappa sono state identificate le seguenti strutture primarie e secondarie e viene fornita l'interpretazione in base alla morfologia e al contesto geologico.

    3.1.1. Strutture primarie

    Canali. I canali rappresentano caratteristiche di retrodiffusione bassa, da sinuose a diritte, lunghe centinaia di chilometri e larghe pochi chilometri (Figura 3 a); localmente mancano di evidenti rilievi topograficiSono più comuni nelle pianure regionali o associati a grandi colate di fogli. Sia la natura della composizione del fluido/lava che il processo di formazione (costruttivo vs erosivo) sono sconosciuti.

    Catene da fossa . Pozzi o catene di pozzi rappresentano probabilmente regioni segnate da scavi sotterranei e sono interpretati come l'espressione superficiale di faglie o dicchi dilatativi (Figura 3 b), che implicano il trasporto di magma sotto la superficie.

    Fronti di flusso. I fronti di flusso nei materiali vulcanici sono talvolta molto chiari nelle immagini radar e aiutano a limitare la massima estensione degli episodi vulcanici nella storia eruttiva di una struttura vulcanica (Figura 3 c), la direzione dei flussi e talvolta anche il carattere strutturale del materiale estrusoI fronti di flusso insieme ad altre strutture vulcaniche primarie come canali possono vincolare la direzione e l'estensione dei flussi di lava e talvolta aiutano a stabilire una cronologia relativa tra diverse subunità del flusso o flussi da diverse unità.

    Piccoli vulcani . Piccoli edifici vulcanici (dimensioni ≤20 km) sono molto numerosi sulla superficie di Venere (Figura 3 d). Sebbene i piccoli edifici vulcanici mostrino un ampio spettro di morfologie vengono definiti genericamente come scudi. Alcuni scudi sono riconoscibili solo dalla presenza di una fossa mentre in altri casi si osservano tumuli con fossa. Gli scudi si trovano isolati nelle pianure anche se è comune la presenza di gruppi di edifici che formano cluster o campi di scudi ( colles ), talvolta associati a grandi strutture tettonomagmatiche (es. corone e grandi edifici vulcanici).

    Vulcani intermedi. Edifici vulcanici di dimensioni intermedie (dimensioni ≥ 20 km ≤ 100 km) sono comuni anche sulla superficie di Venere (Figura 3 e). Ci sono caratteristiche vulcaniche particolari di queste dimensioni: cupole dai lati ripidi o a frittella e cupole stellateUn'altra caratteristica comunemente osservabile in edifici di queste dimensioni e morfologia è la presenza di crolli laterali dei fianchi e relativi depositi (Figura 3 f). A volte si può osservare solo la scarpata associata al collasso del fianco del vulcano perché i depositi associati sono ricoperti da materiale più giovane.

    Bordi del cratere. La formazione di crateri da impatto è un processo descritto in tutto il sistema solare. Un cratere è caratterizzato, dal punto di vista morfologico, da un bordo rialzato che circonda un basso topografico con talvolta un picco centrale (Figura 3 g). Nei crateri, mappiamo i bordi come strutture primarie e la coltre di materiale espulso, materiale ruvido e a blocchi attorno al cratere espulso dall'impatto, come unità cartografica.

    Depositi superficiali . La metà settentrionale dell'area della mappa è caratterizzata dalla presenza di depositi superficiali come aloni craterici associati ai crateri Isabella e Cohn. Questi materiali sono composti da polvere sottile che ricopre le diverse unità e strutture ma ne consente comunque l'osservazione. L'estensione dei singoli aloni craterici è difficile da limitare poiché la maggior parte dell'area settentrionale della mappa è interessata dalla presenza di questi depositi. La presenza di questi depositi superficiali rende difficile anche la determinazione dei contatti tra le unità che ne sono ricoperte. Localmente questi depositi superficiali vengono rimobilizzati dal vento ( Figura 3 h), formando strutture eoliane orientate verso ovest-sud-ovest, coerenti con la direzione delle caratteristiche dei crateri legate al vento nel pianeta.

    Terreni collinosi : depositi associati al crollo di edifici vulcanici, noti come terreni collinosi mostrano un aspetto luminoso e una struttura a blocchi nelle immagini radar (Figura 3 f).

    Contatti . Abbiamo determinato tre tipi di contatti: (a) contatti chiari o definiti per quei contatti che presentano cambiamenti distintivi nelle proprietà radar e/o un'altra caratteristica può essere utilizzata per la definizione dell'unità (ad esempio interazione con strutture secondarie); (b) contatti approssimativi o incerti quando i contatti sono diffusi a causa di cambiamenti nella direzione del contatto, omogeneizzazione e mancanza di altre caratteristiche che potrebbero aiutare a definire il contatto e; (c) contatti graduali per la mappatura dei depositi di origine puntuale legati allo scudo.

    3.1.2. Strutture secondarie

    Strutture contrattuali . Creste e creste rugose (Figura 4 a) sono strutture lineari di rilievo positivo interpretate come espressione superficiale di faglie e/o pieghe di spintaLe creste delle rughe sono caratteristiche lunghe, strette e sinuose con larghezza variabile che si presentano in serie parallele con spaziatura costante su grandi distanzeNell'area della mappa, quasi tutte le unità, ad eccezione dei materiali del basamento e delle unità vulcaniche più recenti, sono deformate da creste rugose. Localmente, serie di creste rugose sembrano formarsi in risposta a una tardiva riattivazione o inversione strutturaleL’andamento principale nell’area della mappa è l’ andamento a 180° , che insieme all’andamento Helen Planitia domina in questa parte del pianeta.

    (Figura 4. Esempi di strutture secondarie nell'area della mappa. (a) creste rugose (b) Fratture e graben a Olapa Chasma. Le frecce nere indicano la faccia del graben orientata lontano dall'illuminazione radar che genera un'ombra. Le frecce bianche indicano la faccia del graben orientata verso l'illuminazione radar che genera una superficie luminosa; (c) Fratture concentriche locali a Boann Corona; (d) Fratture radiali locali ad Arasy Mons. Tutte le immagini sono immagini Magellan SAR rivolte a sinistra in modalità normale).

    Esempi di diverse strutture che tagliano e deformano i materiali nell'area di studio.  La Fig 4a mostra una cresta che deforma alcuni materiali vulcanici.  La Fig 4b mostra le fratture che hanno tagliato alcuni materiali vulcanici nell'area.  Vediamo la lava uscire da alcune fratture.  La Fig 4c mostra fratture circolari che si formano quando una grande massa di magma si trova sotto la superficie e la rompe.  La Fig 4d mostra le fratture radiali che si formano quando il magma spinge e rompe la superficie e che si estendono per molti chilometri.

    Strutture estensionali . Con il termine generico fratture consideriamo strutture lineari di origine estensionale. Potrebbero essere semplici fratture o avvallamenti interpretati come graben (Figura 4 b), ma a volte queste strutture sono al limite della risoluzione dell'immagine e le strutture mappate come fratture potrebbero effettivamente essere avvallamenti. Le fratture semplici sono visibili come semplici lineamenti radar-luminosi. In queste strutture, la luminosità radar non è correlata all'orientamento della struttura rispetto alla direzione dello sguardo radar, in quanto il lineamento è visto con le stesse caratteristiche sia nelle immagini rivolte a sinistra che in quelle rivolte a destra. Ciò è coerente con un’interpretazione di frattura aperta e di tipo articolare per questo tipo di struttureGli avvallamenti sono insiemi accoppiati di lineamenti interpretati nella maggior parte dei casi come graben.

    Abbiamo mappato diverse famiglie o suite di fratture e graben in base alla loro natura regionale o locale. Le fratture regionali sono quelle che si estendono attraverso l'area della mappa e che sono interpretate come di origine regionale. Diverse famiglie di fratture regionali e graben con andamenti diversi si trovano a deformare le pianure regionali e i materiali della pianura basale. La più importante e ampiamente distribuita di queste vecchie suite di fratture regionali è una suite di tendenza NE-SW che è presente in diverse parti dell'area della mappa deformando i materiali del basamento e dei materiali della pianura basale. Nell'IRMA, le fratture con andamento NW-SE e il graben di Olapa Chasma sono la principale suite strutturale, tagliando i diversi materiali formati durante l'evoluzione del grande rialzo topografico. Sono localmente associati a catene di fosse,

    Abbiamo anche mappato diverse serie di fratture locali e graben associati a strutture tettonomagmatiche come corone, novae e grandi vulcani. Queste serie locali di fratture possono essere concentriche (Figura 4 c) o radiali (Figura 4 d) rispetto alla struttura tettonomagmatica e sono il risultato di campi di stress locali associati alla loro formazione ed evoluzione.

    3.2. Unità cartografiche

    Terreno tessera, indiviso (tu). Affioramenti isolati di materiali ad alta retrodiffusione e relativamente ad alto rilievo. Ampiamente deformato da suite di strutture locali e regionali. I singoli affioramenti mostrano diversi assemblaggi strutturali e storie deformative.

    Materiali della pianura inferiore, indivisi (lpmu). I materiali vulcanici con retrodiffusione radar da alta a bassa possono includere scudi (generalmente di diametro inferiore a 5 km). Unità composita che delimita un terreno locale più antico, inglobato da pianure regionali e materiali vulcanici. Estesamente deformato da creste rugose regionali, fratture regionali e serie di strutture locali radiali e concentriche legate all'evoluzione delle strutture vulcano-tettoniche.

    Pianure lisce, indivise (spu). Materiale di retrodiffusione da basso ad alto con struttura liscia. Unità composita che forma le pianure regionali. In alcune località la presenza di materiali di rivestimento (alone craterico) rende difficile determinarne la struttura e la retrodiffusione. I confini del flusso internamente discontinui e le strutture primarie vulcaniche che includono canali e scudi (raggruppati localmente) suggeriscono un'origine vulcanica. Estesamente deformato da creste rugose regionali, fratture regionali e serie di strutture locali radiali e concentriche legate all'evoluzione delle strutture vulcano-tettoniche. La natura composita di questa unità ne preclude l'uso come unità marcatore attraverso l'area della mappa e possono essere determinate solo le relazioni temporali locali.

    Piani strutturati, indivisi (tpu).Materiale con retrodiffusione da bassa ad alta con struttura reticolata/poligonale. Questa texture varia nella dimensione dei poligoni che in alcune località sono nei limiti della risoluzione dell'immagine. Unità composita che può far parte delle pianure regionali ma anche dell'attività vulcanica precoce nell'Imdr Regio. In alcune località la presenza di materiali di rivestimento (alone craterico) rende difficile determinare la struttura, la retrodiffusione e il contatto con i materiali circostanti. Internamente eterogenee, le strutture primarie includono canali e scudi (raggruppati localmente) che suggeriscono un'origine vulcanica. In alcune località la trama è correlata alla presenza di ammassi di scudi e potrebbe essere geneticamente correlata. Estesamente deformato da creste rugose regionali, fratture regionali e suite di strutture locali radiali e concentriche legate all'evoluzione delle strutture vulcano-tettoniche. La natura composita di questa unità ne preclude l'uso come unità marcatore attraverso l'area della mappa e possono essere determinate solo le relazioni temporali locali.

    Materiale del cratere, indiviso (cu). Retrodiffusione elevata e texture a blocchi. Include coperte di materiale espulso, fondo del cratere e picchi centrali. La natura composita di questa unità ne preclude l'uso come unità indicatore nell'area della mappa e possono essere determinate solo le relazioni temporali locali dei materiali del cratere con altre unità e strutture.

    Materiale del flusso craterico, indiviso (ufc). Materiali ad alto flusso di retrodiffusione associati a crateri da impatto. I flussi lobati e le strutture di flusso consentono di determinare la direzione del flusso. La natura composita di questa unità ne preclude l'uso come unità indicatore nell'area della mappa e possono essere determinate solo le relazioni temporali locali dei materiali del cratere con altre unità e strutture.

    Fluisce da Kupo Patera (fpK). Materiali di retrodiffusione da intermedi ad alti associati a Kupo Patera (41,9°S/195,5°E) e altre caratteristiche vicino al vulcano-tettonico. I flussi prossimali verso Kupo Patera mostrano un'elevata retrodiffusione e lobi di flusso chiari. Anche i vulcani di dimensioni intermedie intorno a Kupo Patera potrebbero contribuire all’unità. Deformato da creste rugose regionali. Il rapporto con le fratture regionali e le strutture concentriche legate alla formazione e all'evoluzione del Kupo Patera è trasgressivo rispetto al tempo.

    Fluisce da Arasy Mons (fmA). Retrodiffusione intermedia e trama screziata. Unità composita costituita da flussi vulcanici sovrapposti relativi ad Arasy Mons (40,2°S/209,7°E). Chiari flussi lobati permettono di tracciare la direzione e l'estensione dei flussi vulcanici a N e NW del vulcano. Anche pozzi secondari e piccoli vulcani sui fianchi potrebbero contribuire all'unità. Un sistema di fratture radiali associato alla formazione del vulcano taglia, ma è anche parzialmente coperto, i materiali dell'unità. Localmente tagliato da fratture e graben di Olapa Chasma.

    Fluisce da Firtos Mons (fmF). Materiali di retrodiffusione intermedi intorno a Firtos Mons (47,3°S/220°E). Un sistema di frattura radiale associato a Firtos Mons taglia, ma è anche parzialmente coperto, i materiali dell'unità. La mancanza di lobi di flusso chiari rende difficile delineare chiaramente i limiti dell'unità. Anche strutture vulcaniche inglobate e gruppi di piccoli vulcani potrebbero aver contribuito all'unità. Deformato da creste rugose regionali.

    Fluisce da Ignirtoq Tholi (ftI). Retrodiffusione da intermedia ad alta e struttura screziata. Unità composita costituita da flussi vulcanici sovrapposti relativi a Ignirtoq Tholi (50,9°S/222,8°E). Le chiare colate lobate permettono di tracciare localmente la direzione e l'estensione delle colate vulcaniche. I flussi sono posteriori alle fratture radiali associate a Ignirtoq Tholi ma sono deformati da creste rugose regionali.

    Deriva da patere senza nome (fpu). Flussi di retrodiffusione da intermedi ad alti associati a un gruppo di piccole patere senza nome. Il rapporto con le strutture concentriche legate alla formazione delle diverse patere e delle creste rugose regionali è trasgressivo rispetto al tempo.

    Campo scudo e materiali associati vicino a Payne-Gaposchkin Patera (sfPG). Materiali con retrodiffusione da bassa a intermedia formati da gruppi di singoli edifici di diametro < 10 km chilometri e flussi associati. Contatti graduali con le unità circostanti dovuti alla natura puntiforme del vulcanismo a scudo. Localmente deformato da creste rugose regionali, fratture regionali e serie di strutture locali radiali e concentriche legate all'evoluzione delle strutture vulcano-tettoniche.

    Campo scudo e materiali associati nella Wawalag Planitia orientale (sfW) . Materiali con retrodiffusione da bassa a intermedia formati da gruppi di singoli edifici di diametro < 10 km chilometri e flussi associati. Contatti graduali con le unità circostanti dovuti alla natura puntiforme del vulcanismo a scudo. Localmente deformato da creste rugose regionali, fratture regionali e serie di strutture locali radiali e concentriche legate all'evoluzione delle strutture vulcano-tettoniche.

    Campo scudo e materiali associati nel nord di Olapa Chasma (sfNO). Materiali con retrodiffusione da bassa a intermedia formati da gruppi di singoli edifici di diametro < 10 km chilometri e flussi associati. Contatti graduali con le unità circostanti dovuti alla natura puntiforme del vulcanismo a scudo. Localmente deformato da creste rugose regionali, fratture regionali e serie di strutture locali radiali e concentriche legate all'evoluzione delle strutture vulcano-tettoniche.

    Campo scudo e materiali associati nell'Olapa Chasma occidentale (sfWO). Materiali a retrodiffusione intermedia con screziature per reticolare le texture. Associato a vulcani intermedi e gruppi di piccoli vulcani nell'Olapa Chasma occidentale. Localmente i lobi dei flussi permettono di tracciare l'entità e la direzione dei flussi. I materiali di questa unità sono localmente tagliati da fratture regionali locali con tendenza NW e NE che sono anche localmente postdatate dai materiali dell'unità. Deformato da creste rugose regionali.

    Campo scudo e materiali associati nell'Olapa Chasma orientale (sfEO). Retrodiffusione da intermedia a bassa e consistenza morbida. Alcuni piccoli flussi possono essere ricondotti a piccoli vulcani, ma la fonte di alcuni materiali unitari non è chiara. Deformato localmente da fratture radiali locali di Idunn Mons e da alcune creste rugose, ma in generale i materiali dell'unità non presentano deformazioni significative.

    Fluisce da Olapa Chasma (fchO).Materiali con retrodiffusione da bassa ad alta con texture che variano dall'aspetto liscio a quello screziato localmente. I lobi di flusso chiari consentono di determinare l'entità e la direzione dei flussi. Questa unità è un'unità composita formata da flussi che hanno origine nelle fratture e nei graben di Olapa Chasma, ma anche localmente possono essere correlati a scudi individuali e gruppi di scudi. Diversi flussi che formano questa unità includono Robigo, Saosis e Nyakaya flucti. I materiali di questa unità sono contemporanei alla formazione di Olapa Chasma, con materiali vulcanici postdatati e deformati dalle singole strutture del sistema di rift. Deformato localmente da fratture radiali dei monti Idunn e Arasy e, ma molto localmente, da fratture regionali e creste rugose. È un'unità composita che consente solo la determinazione di rapporti temporali locali.

    Fluisce da Idunn Mons, membro 1 (fmI1). Basso retrodiffusione e flussi di fogli per lo più omogenei che localmente mostrano una trama screziata nelle loro aree terminali. La presenza di un canale di grandi dimensioni suggerisce che questi grandi flussi potrebbero essere alimentati da canali, ma potrebbero anche corrispondere a una sezione del flusso che è stata canalizzata o a un canale che ha alimentato unità di flussi successivi. Estesamente deformato da creste rugose regionali, fratture e graben di Olapa Chasma e fratture radiali locali di Idunn Mons. Localmente i materiali dell'unità ricoprono queste fratture radiali, indicando che potrebbero essere contemporanei e che i flussi vulcanici potrebbero essere geneticamente correlati alle fratture radiali.

    Fluisce da Idunn Mons, membro 2 (fmI2). Backscatter intermedio che si sovrappone ai flussi digitati con bordi luminosi locali e struttura a collinetta. Deformati localmente da creste rugose, soprattutto nelle zone distali. Contemporaneo alle fratture radiali locali di Idunn Mons e alle fratture e graben di Olapa Chasma.

    Fluisce da Idunn Mons, membro 3 (fmI3). Flussi digitati sovrapposti con backscatter elevato che presentano una struttura interna omogenea. Alcuni flussi sono canalizzati. Contemporaneo alle fratture radiali locali di Idunn Mons e alle fratture e graben di Olapa Chasma.

    Fluisce da Idunn Mons, membro 4 (fmI4). Retrodiffusione da intermedia ad alta flussi multipli digitati sovrapposti che si irradiano dal vertice centrale. Contemporaneo alle fratture radiali locali di Idunn Mons e alle fratture e graben di Olapa Chasma. Alcuni flussi la cui origine non può essere ricondotta alla sommità potrebbero essere correlati a flussi alimentati da fratture nei fianchi e legati alle fratture del rift.

    Fluisce da Idunn Mons, membro 5 (fmI5). Retrodiffusione da intermedia ad alta flussi multipli digitati sovrapposti che formano i fianchi superiori del vulcano. Alcuni dei flussi vicino alla sommità presentano rapporti lunghezza-larghezza stretti. I flussi di questa unità sono contemporanei alle fratture e al graben di Olapa Chasma ma sembrano posteriori alle fratture radiali locali di Idunn Mons. Alcuni flussi potrebbero essere flussi alimentati da fratture originati da fratture e graben di Olapa Chasma.

    4. Conclusioni

    Questo studio rappresenta la prima carta geologica dettagliata della Imdr Regio di Venere. Nell'area cartografica le pianure regionali sono composte da affioramenti locali di tessere e altri materiali locali postdatati dalle grandi pianure regionali (Pianure Lisce e Tessute indivise). Questi materiali sono deformati da fratture regionali, creste di rughe a 180° e tendenze regionali di Helen Planitia, e da suite di fratture locali legate alla formazione di corone e altre grandi strutture tettonomagmatiche. L'Imdr Regio è dominato dall'Olapa Chasma con andamento NW-SE con fratture locali e graben associati alla formazione di grandi vulcani ed altre unità tettono-magmatiche. Le unità nell'Imdr Regio sono legate alla formazione di grandi vulcani come Idunn Mons e al magmatismo associato al sistema di rift Olapa Chasma. Altre unità includono gruppi di piccoli scudi e materiali associati che si sono formati nel corso della storia di Imdr Regio. In tutta l'area della mappa diverse unità erano formate da materiali espulsi dai crateri e da flussi locali associati a crateri da impatto (ad esempio Isabella e Boyd). Nella metà settentrionale dell'area della mappa i materiali superficiali (cioè la polvere) associati ai processi di impatto ricoprono le diverse strutture e unità.

    ______________________________________

    Interno:

    Internamente, i paragoni somiglianti, in termini di diametro e di densità tra Venere e la Terra, suggeriscono che i due pianeti possano avere una struttura interna simile, cioè un nucleo, un mantello e una crosta. Si ipotizza che il nucleo di Venere, come quello della Terra, sia almeno parzialmente liquido dal momento che i due pianeti hanno avuto un processo di raffreddamento similare.

    Superficie:
    Circa l'80% della superficie di Venere è formata da pianure vulcaniche che per il 70% mostrano dorsali da corrugamento, e per il 10% sono proprio lisce. Il resto è costituito da due altopiani definiti continenti, uno nell'emisfero nord e l'altro appena a sud dell'equatore.
    Il continente più a nord è chiamato Ishtar Terra, e ha circa le dimensioni dell'Australia. I Monti Maxwell, il più alto massiccio montuoso su Venere, si trovano su Ishtar Terra. La superficie di Venere è, rispetto a quella della Terra e di Marte, generalmente pianeggiante in quanto solo il 10% della superficie si estende oltre i 10 km d'altezza, contro i 20 chilometri che separano invece i fondi oceanici terrestri dalle montagne più alte.
    Il continente a sud è chiamato Aphrodite Terra, e ha circa le dimensioni dell'America meridionale. La maggior parte di questo continente è ricoperta da un intrico di fratture e di faglie.

    Origine vulcanica per le antiche rocce di Venere:
    Un team internazionale di ricercatori ha scoperto che alcuni dei terreni più antichi di Venere, noti come tesserae o tessere, dal termine latino che indica il tassello di un mosaico, hanno una stratificazione che sembra coerente con l’attività vulcanica. La scoperta potrebbe fornire approfondimenti sulla storia geologica dell’enigmatico pianeta.
    Le tessere sono regioni tettonicamente deformate sulla superficie di Venere che sono spesso più elevate del paesaggio circostante. Costituiscono circa il 7 per cento della superficie del pianeta e sono sempre la caratteristica più antica nelle loro immediate vicinanze, risalenti a circa 750 milioni di anni fa. 
    In un nuovo studio apparso su Geology, i ricercatori mostrano che una porzione significativa delle tessere presenta striature coerenti con una stratificazione.

    «Ci sono generalmente due spiegazioni per le tessere: o sono fatte di rocce vulcaniche, oppure sono controparti della crosta continentale terrestre», afferma Paul Byrne, professore associato di scienze planetarie presso la North Carolina State University e primo autore dello studio. «Ma la stratificazione che troviamo su alcune tessere non è coerente con la spiegazione della crosta continentale».

    Il team ha analizzato le immagini della superficie di Venere dalla missione Magellano della Nasa del 1989, che ha utilizzato il radar per fotografare il 98 per cento del pianeta attraverso la sua densa atmosfera. Mentre i ricercatori hanno studiato le tessere per decenni, prima di questo lavoro la stratificazione delle tessere non era stata riconosciuta come diffusa. E, secondo Byrne, quella stratificazione non sarebbe possibile se le tessere fossero porzioni di crosta continentale. «La crosta continentale è composta principalmente da granito, una roccia ignea che si forma quando le placche tettoniche si muovono e l’acqua viene subdotta dalla superficie», spiega Byrne. «Ma il granito non forma strati. Se c’è una crosta continentale su Venere, allora è sotto le rocce stratificate che vediamo».

    Una vista simulata dall’alto di Tellus Tessera, una delle regioni su Venere dove Byrne et al. hanno identificato la presenza di stratificazioni. L’immagine è generata a partire dai dati della missione Magellano della Nasa. Crediti: Nasa, Byrne et al. ).

    A parte l’attività vulcanica, l’altro modo per creare roccia stratificata è attraverso depositi sedimentari, come arenaria o calcare. Non c’è un solo posto oggi su Venere in cui questo tipo di rocce potrebbe formarsi. La superficie di Venere è calda come un forno autopulente e la pressione è equivalente a quella che si trova a 900 metri sott’acqua. 
    Quindi le prove in questo momento indicano che alcune parti delle tessere sono costituite da roccia vulcanica stratificata, simile a quella trovata sulla Terra.

    Byrne spera che lo studio aiuterà a far luce sulla complicata storia geologica di Venere. «Sebbene i dati che abbiamo ora indicano che le tessere hanno origini vulcaniche, se un giorno fossimo in grado di campionarle e scoprissimo che sono rocce sedimentarie, allora si sarebbero dovute formare quando il clima era molto diverso, forse simile a quello sulla Terra» conclude Byrne. «Venere oggi è infernale, ma non sappiamo se è sempre stato così. Forse una volta era come la Terra, ma ha subito catastrofiche eruzioni vulcaniche che hanno rovinato il pianeta. Al momento non possiamo dirlo con certezza, ma il fatto della stratificazione nelle tessere restringe le potenziali origini di questa roccia».


    (mappa altimetrica di Venere).
    _________________________________

    Su Venere un possibile indicatore della presenza di vita

    Un'equipe internazionale di astronomi ha annunciato oggi la scoperta di una molecola rara, la fosfina, nelle nubi di Venere. Sulla Terra, questo gas è prodotto solo industrialmente o da microbi che prosperano in ambienti privi di ossigeno. Gli astronomi hanno ipotizzato per decenni che le nubi ad alta quota intorno a Venere potessero offrire ospitalità ai microbi, lasciandoli fluttuare lontani dalla superficie rovente, ma in un ambiente di acidità molto elevata. La rilevazione della fosfina potrebbe indicare la presenza di una vita “aerea” extraterrestre.

    "È stato un vero colpo, vedere i primi segnali della presenza di fosfina nello spettro di Venere!", afferma Jane Greaves dell'Università di Cardiff nel Regno Unito, a capo dell'equipe che per prima ha individuato l'impronta della fosfina (detta anche fosfuro di idrogeno) nelle osservazioni del James Clerk Maxwell Telescope (JCMT), gestito dall'Osservatorio dell'Asia orientale, alle Hawaii. La conferma della scoperta ha richiesto l'utilizzo di 45 antenne di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile, un telescopio più sensibile di cui l'ESO (European Southern Observatory) è partner. Entrambi gli strumenti hanno osservato Venere a una lunghezza d'onda di circa 1 millimetro, molto più lunga di quanto l'occhio umano possa vedere - solo i telescopi ad altitudini elevate possono rilevarla efficacemente.

    L'equipe internazionale, che comprende ricercatori del Regno Unito, degli Stati Uniti d'America e del Giappone, stima che la fosfina si trovi nelle nubi di Venere a bassa concentrazione, solo una ventina di molecole per ogni miliardo. A seguito delle osservazioni, gli astronomi hanno verificato se queste quantità potessero derivare da processi naturali non biologici sul pianeta. Tra le idee controllate: luce solare, minerali sospinti verso l'alto dalla superficie, vulcani o fulmini, ma nessuno di questi fenomeni poteva produrne abbastanza. Si è calcolato che queste sorgenti non biologiche producono al massimo un decimillesimo della quantità di fosfina vista dai telescopi.

    Secondo l'equipe, per creare la quantità di fosfina (formata da idrogeno e fosforo) osservata su Venere, organismi terrestri dovrebbero funzionare a circa il 10% soltanto della loro produttività massima. È noto che i batteri terrestri producono fosfina: assorbono fosfato da minerali o materiale biologico, aggiungono l'idrogeno e infine espellono la fosfina. Qualsiasi organismo su Venere sarà probabilmente molto diverso dai cugini terrestri, ma anche questi potrebbero essere sorgenti di fosfina nell'atmosfera.

    Anche se la scoperta della fosfina nelle nubi di Venere è stata una sorpresa, i ricercatori confidano nella solidità della misura. “Con nostro grande sollievo, c'erano buone condizioni per le osservazioni di follow-up con ALMA quando Venere si trovava a un angolo adatto rispetto alla Terra. L'elaborazione dei dati è stata complicata, tuttavia, poiché ALMA di solito non cerca effetti così fini in sorgenti così luminose come Venere ", commenta Anita Richards, dell'ALMA Regional Center del Regno Unito e dell'Università di Manchester e membro dell'equipe. "Alla fine, abbiamo scoperto che entrambi gli osservatori avevano visto la stessa cosa: un debole assorbimento alla giusta lunghezza d'onda per la fosfina gassosa, prodotta dalle molecole retroilluminate dalle nubi sottostanti più calde", aggiunge Greaves, che ha guidato il lavoro pubblicato oggi su Nature Astronomy.

    Un altro membro dell'equipe, Clara Sousa Silva del Massachusetts Institute of Technology negli Stati Uniti d'America, ha studiato la fosfina come una "firma biologica" della presenza di vita anaerobica (cioè che non utilizza ossigeno) sui pianeti intorno ad altre stelle, perché i normali processi chimici ne producono così poco. 

    (la riga spettrale della fosfina).

    Commenta: “Trovare la fosfina su Venere è stato un regalo inaspettato! La scoperta solleva molte domande, come il modo in cui un qualsiasi organismo potrebbe sopravvivere. Sulla Terra, alcuni microbi possono sopportare fino a circa il 5% di acido nell'ambiente, ma le nubi di Venere sono quasi interamente fatte di acido".

    L'equipe ritiene che la scoperta sia significativa, perché si possono escludere molti modi alternativi per produrre fosfina, ma riconosce che la conferma della presenza della "vita" richiede un lavoro ulteriore. Nonostante le nubi in quota di Venere raggiungano una piacevole temperatura di 30 gradi Celsius, sono incredibilmente acide - circa il 90% è acido solforico - ponendo grossi problemi a tutti i microbi che cercano di sopravvivere al loro interno.

    Leonardo Testi, astronomo dell'ESO e Direttore Operativo europeo di ALMA, che non ha partecipato al nuovo studio, afferma: “La produzione non biologica di fosfina su Venere è esclusa dalla nostra attuale conoscenza della chimica della fosfina nelle atmosfere dei pianeti rocciosi. Confermare l'esistenza della vita nell'atmosfera di Venere sarebbe un importante passo avanti per l'astrobiologia; quindi, è essenziale far seguire a questo risultato entusiasmante studi teorici e osservativi per escludere la possibilità che la fosfina sui pianeti rocciosi possa anche avere un'origine chimica diversa da quella che ha sulla Terra".

    Qui di seguito lo studio scientifico:
    ______________________________

    Gas fosfina nelle nuvole di Venere

      Di : Jane S. Greaves , Anita MS Richards , William Bains , Paul B. Rimmer , Hideo Sagawa , 
      David L. Clements , Sara Seager , Janusz J. Petkowski , Clara Sousa-Silva , Sukrit Ranjan , 
      Emily Drabek-Maunder , Helen J. Fraser , Annabel Cartwright , Ingo Mueller-Wodarg , 
      Zhuchang Zhan , Per Friberg , Iain Coulson , Elisa Lee & Jim Hoge .

    Introduzione:

    Le misurazioni di gas in tracce nelle atmosfere planetarie ci aiutano a esplorare condizioni chimiche diverse da quelle sulla Terra. Il nostro vicino più prossimo, Venere, ha nuvole che sono temperati ma iperacidi. Riportiamo qui l'apparente presenza di gas fosfina (PH3) nell'atmosfera di Venere, dove qualsiasi composto del fosforo dovrebbe essere in forme ossidate. Le rilevazioni spettrali a banda millimetrica su una riga (qualità fino a ~15σ ) dai telescopi JCMT e ALMA non hanno altre identificazioni plausibili. Si deduce un PH3 atmosferico a ~20 ppb. La presenza di PHè inspiegabile dopo uno studio esauriente della chimica allo stato stazionario e dei percorsi fotochimici, senza percorsi di produzione abiotica attualmente noti nell'atmosfera di Venere, nelle nuvole, nella superficie e nel sottosuolo, o da fulmini, vulcanici o meteoriti. PH3 potrebbe provenire da fotochimica o geochimica sconosciuta o, per analogia con la produzione biologica di PH3 sulla Terra, dalla presenza della vita. Dovrebbero essere ricercate altre caratteristiche spettrali PH3 , mentre il campionamento in situ di nuvole e superfici potrebbe esaminare le sorgenti di questo gas.

    Principale:

    Lo studio delle atmosfere dei pianeti rocciosi fornisce indizi su come interagiscono con superfici e sottosuperfici e se eventuali composti non in equilibrio potrebbero riflettere la presenza della vita. 

    Il Sistema Solare offre quindi importanti banchi di prova per l'esplorazione della geologia planetaria, del clima e dell'abitabilità, sia tramite campionamento in situ che monitoraggio remoto. La prossimità rende i segnali dei gas in traccia molto più forti di quelli dei pianeti extrasolari, ma i problemi rimangono nell'interpretazione.

    Finora, l'esplorazione del Sistema Solare ha trovato composti di interesse, ma spesso in luoghi in cui le fonti di gas sono inaccessibili, come il sottosuolo marziano e le riserve d'acqua all'interno delle lune ghiacciateSono note acqua, sostanze organiche semplici e specie più grandi portatrici di carbonio non identificateTuttavia, possono esistere sorgenti geochimiche di composti di carbonio e le anomalie temporali o spaziali possono essere difficili da conciliare, ad esempio, per il metano marziano campionato dai rover e osservato dall'orbita.

    Un gas con biofirma ideale sarebbe inequivocabile. Gli organismi viventi dovrebbero essere la sua unica fonte e dovrebbero avere transizioni spettrali intrinsecamente forti, caratterizzate con precisione, non miscelate con linee contaminanti, criteri che di solito non sono tutti realizzabili. È stato recentemente proposto che qualsiasi fosfina (PH3) rilevata nell'atmosfera di un pianeta roccioso sia un promettente segno di vitaLa traccia di PH3 nell'atmosfera terrestre è associata in modo univoco all'attività antropica o alla presenza microbica: la vita produce questo gas altamente riducente anche in un ambiente ossidante generale. Il PH3 si trova altrove nel Sistema Solare solo nelle atmosfere riducenti dei pianeti giganti, dove viene prodotto in strati atmosferici profondi ad alte temperature e pressioni, e dragato verso l'alto per convezioneLe superfici solide dei pianeti rocciosi rappresentano una barriera al loro interno e il PH3 verrebbe rapidamente distrutto nelle loro croste e atmosfere altamente ossidate. Pertanto, il PH3 soddisfa la maggior parte dei criteri per una ricerca di gas con firma biologica, ma è impegnativo da trovare poiché molte delle sue caratteristiche spettrali sono fortemente assorbite dall'atmosfera terrestre.

    Motivati da queste considerazioni, abbiamo sfruttato la transizione rotazionale PH3 1–0 in banda d'onda millimetrica che può assorbire gli strati otticamente spessi dell'atmosfera di Venere. Le speculazioni di lunga data considerano le biosfere aeree nei gruppi di nubi ad alta quota, dove le condizioni hanno qualche somiglianza con gli ecosistemi che producono PH3 sulla TerraAbbiamo sfruttato una buona sensibilità dello strumento, 25 anni dopo la prima osservazione in banda millimetrica nel Sistema Solare di PH3 (nell'atmosfera di Saturno) . Abbiamo proposto un esperimento che potrebbe fissare limiti di abbondanza dell'ordine delle parti per miliardo su Venere, paragonabili alle produzioni di PH3 di alcuni ecosistemi anaerobici terrestriL'obiettivo era un punto di riferimento per sviluppi futuri, ma inaspettatamente, le nostre osservazioni iniziali hanno suggerito che fosse presente una quantità rilevabile di PH3 venusiano.

    Presentiamo qui di seguito i dati della scoperta e la conferma, con la mappatura preliminare mediante osservazioni di follow-up ed escludiamo la contaminazione della linea. Ci occupiamo quindi se reazioni gassose, reazioni foto/geochimiche o input esogeni di non equilibrio potrebbero plausibilmente produrre PH3 su Venere.

    Risultati:

    La transizione rotazionale PH3 1–0 alla lunghezza d'onda di 1,123 mm è stata inizialmente cercata con il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT), nelle osservazioni di Venere per cinque mattine nel giugno 2017. Gli spettri a punto singolo coprono l'intero pianeta. Le linee di assorbimento dalle nuvole sono state cercate contro il quasi-continuo creato dalla sovrapposizione di ampie caratteristiche di emissione dall'atmosfera più profonda e opaca.

    La principale limitazione a un piccolo rapporto linea-continuo (di seguito, rapporto l:c) era il "ripple" spettrale, causato da artefatti come i riflessi del segnale. Abbiamo identificato tre problemi (vedi "Riduzione dei dati JCMT" in Metodi ), con il più problematico che è l'ondulazione ad alta frequenza che si sposta all'interno delle osservazioni in un modo difficile da rimuovere anche nello spazio di FourierAbbiamo quindi seguito un approccio standardizzato per diversi decenni , adattando i polinomi di ampiezza rispetto alla lunghezza d'onda alle increspature (in 140 spettri). La banda passante è stata troncata a 100 km/s per evitare di utilizzare ordini polinomiali elevati. (L'ordine si basa sul numero N di `` protuberanze '' nel modello di ondulazione; l'adattamento è ottimale con l'ordine N +1 e migliorato in modo trascurabile all'aumentare dell'ordine. Una banda più ampia comprende più 'colpi', aumentando N . Per una libertà minima, un adattamento lineare può essere impiegato immediatamente attorno alla linea candidata, ignorando la banda passante rimanente (vedere la Tabella 1 per le differenze sistematiche risultanti). Abbiamo esplorato una gamma di soluzioni con gli spettri appiattiti al di fuori di un intervallo di velocità entro il quale è consentito l'assorbimento. (Il polinomio deve essere interpolato su un intervallo, come se adattato alla banda completa rimuoverà sempre una linea candidata, data la libertà di aumentare l'ordine.) Questi intervalli di interpolazione variavano da molto stretti, preservando solo il nucleo della linea (previsto dal nostro radiativo modelli di trasferimento, Fig. 1), fino a un limite definito da Fourier al di sopra del quale gli artefatti di segno negativo possono imitare una linea di assorbimento. I dettagli sono nel paragrafo ''Metodi''Gli spettri sono stati anche ridotti in modo completamente indipendente da un secondo membro del team, tramite un metodo di elaborazione minima che fa collassare lo stack di dati lungo l'asse temporale e si adatta a un polinomio di ordine inferiore a un passaggio; questo ha dato uno spettro di uscita simile ma con un rapporto segnale / rumore inferiore.

    Tabella 1 Proprietà della linea di assorbimento PH3 per le regioni dell'atmosfera di Venere.
    Fig. 1: spettri di PH3 1–0 nell'atmosfera di Venere osservati con il JCMT.
    Figura 1

    Gli assi sono il rapporto l:c rispetto alla velocità spostata Doppler riferita 

    alla lunghezza d'onda PH3 . A sinistra: le soluzioni meno e più conservative dopo l'adattamento e la rimozione del ripple spettrale (vedere "Riduzione dei dati JCMT" nei metodi ), con la linea residua presente all'interno degli intervalli di velocità di | v | = 8 km/s (pieno, nero) e | v | = 2 km/s (tratteggiato, arancione). I dati sono stati raggruppati per chiarezza in istogrammi (ovvero, barre che indicano le medie) sull'asse x ; le barre di errore 1σ rappresentative sono 0,46 × 10E−4 in rapporto l:c per 3,5 km/s bin spettrale. Le barre di errore indicano la dispersione all'interno di ciascun canale da 140 spettri di ingresso co-aggiunti; la dispersione da canale a canale è maggiore del 40% circa, attribuibile al ripple residuo e contribuisce alla gamma del rapporto segnale / rumore (Tabella 1 ). A destra: la soluzione di fascia media adottata con | v | = 5 km/s (istogramma), sovrapposto al nostro modello per 20 ppb di abbondanza in volume. La curva rossa continua mostra questo modello dopo l'elaborazione con lo stesso adattamento spettrale utilizzato per i dati. Le ali della linea e la pendenza continua sono state così rimosse dal modello originale (curva rossa tratteggiata in basso). Poiché l'adattamento spettrale forza le ali di linea verso lo zero, solo l'intervallo ± 10 km/s intorno alla velocità di Venere è stata utilizzata nella caratterizzazione della linea (Tabella 1 ).Immagine a grandezza naturale

    Nel nostro spettro co-aggiunto (Fig. 1 ), abbiamo visto l'assorbimento del candidato PH3 1–0, con il rapporto segnale-rumore variabile su ~ 3–7, a seconda della selezione dell'intervallo di velocità. La caratteristica è coerente con la velocità di Venere, ma non è caratterizzata con precisione (Tabella 1 ). Ciò potenzialmente consente alla caratteristica di essere un debole artefatto residuo o una transizione di un'altra molecola a una lunghezza d'onda vicina.

    Abbiamo quindi cercato la conferma della stessa transizione, con una tecnologia indipendente e un migliore rapporto segnale-rumore, utilizzando l'Atacama Large Millimeter / submillimetre Array (ALMA) nel marzo 2019. In linea di principio, la risoluzione in scala d'arco di ALMA consentirebbe una mappatura dettagliata del l'atmosfera del pianeta. In pratica, la risposta interferometrica di un grande pianeta luminoso ha prodotto increspature spettrali artefatte che variano dalla linea di base alla linea di base (e non eliminate dalla calibrazione del passa banda). Questa calibrazione sistematica è stata notevolmente ridotta, prima dell'imaging, escludendo tutte le linee di base da telescopio a telescopio di lunghezza <33 m. Ciò era necessario per la gamma dinamica ed era l'unica deviazione sostanziale dall'approccio standard ALMA "QA2" alla riduzione dei datiSebbene la calibrazione del passa-banda utilizzando la luna di Giove Callisto non fosse del tutto sufficiente, la gamma dinamica ottenuta era ancora sostanzialmente superiore alle specifiche di ALMA (~ 10E−3 nel rapporto l:c, senza le tecniche che abbiamo usato per ridurre la sistematica, e che abbiamo verificato non produceva caratteristiche spurie). Per eliminare il ripple residuo dagli spettri estratti, abbiamo testato strategie di adattamento polinomiale con ordini che vanno da 12 (ottimale per una banda passante di 80 km/s , Fig. 2), fino a 1 (adattamento solo attorno alla linea candidata). Le incertezze sistematiche risultanti sono riassunte nella tabella 1 .

    Abbiamo anche verificato la robustezza cercando simultaneamente acqua deuterata (HDO) nota per essere presente su Venere. È stata rilevata la linea HDO 2 2,0 –3 1,3 alla lunghezza d'onda di 1,126 mm, con un profilo di linea ben adattato dal nostro modello di trasferimento radiativo, e un abbondanza su Venere d'acqua normale (vedere "Riduzione dei dati ALMA" in Metodi ). Le impostazioni simultanee di banda passante più ampia ci hanno anche permesso di impostare limiti superiori su altre specie chimiche: le transizioni qui potrebbero essere un controllo su possibili contaminanti, cioè, vincolare le transizioni in lunghezza d'onda alla linea che identifichiamo come PH3 1–0. L'accordatura a banda larga incentrata su questo PHdi transizione ha fornito un ulteriore controllo di riproducibilità. Questi dati hanno maggiori problemi con il ripple spettrale rispetto alle impostazioni a banda stretta, ma la linea PH3 è stata recuperata

    L'effetto della rimozione dei dati ALMA a base corta è che i segnali di linea da aree uniformi su scale > 4 arcsec sono sostanzialmente diluiti. Pertanto il nostro rapporto l:c corrisponde ai limiti inferiori dell'abbondanza di PH3 (ma la significatività del rilevamento non è influenzata; questi valori sono come indicato nella tabella 1 ). Inoltre, i ripidi gradienti di densità del flusso sull'arto hanno portato a un maggiore recupero del flusso. Per garantire che i risultati siano affidabili, non abbiamo tentato di interpretare gli spettri di assorbimento su scale al secondo d'arcoPer mitigare il bias nel campionamento migliore dell'arto, gli spettri in Fig. 2 sono tutte le medie da strisce "da lato a lato" in tutto il pianeta.

    Fig. 2: Spettri di Venere ottenuti con ALMA.
    figura 2

    A sinistra: lo spettro PH3 1–0 dell'intero pianeta, con errori 1σ (qui da canale a canale) di 0,11 × 10E−4 per 1,1 km/s bin spettrale. A destra: spettri delle zone polare (istogramma in nero), media latitudine (in blu) ed equatoriale (in rosso), come definito nella Tabella 1 . Gli spettri sono stati compensati verticalmente per chiarezza e lo spettro polare è stato ridotto in velocità per ottenere un limite superiore più profondo. Le ali di linea sono forzate verso lo zero fuori | v | = 5 km/s in questi spettri, e solo questo intervallo è stato utilizzato nella caratterizzazione (Tabella 1 e "Riduzione dei dati ALMA" nei metodi ).

    I dati di ALMA confermano la rilevazione dell'assorbimento alla lunghezza d'onda PH3 1–0. Tutte le velocità dal centro della linea sono coerenti con la velocità di Venere compresa tra −0,2 e +0,7 km/s (circa il 10% della larghezza della linea), con la migliore precisione di misurazione a ± 0,3 km/s e sistematica di ~ 0,1-0,7 km/s (Tabella 1 ). Per questo grado di coincidenza della velocità apparente, qualsiasi transizione contaminante da un'altra specie chimica dovrebbe coincidere in lunghezza d'onda a riposo con PH3 1–0 entro ~ 10E−6 .

    I dati sopra rappresentano la scoperta del candidato di PH3 su Venere. A causa dell'elevata sensibilità del rapporto l:c richiesta, abbiamo testato la robustezza attraverso diversi percorsi. In particolare, abbiamo analizzato i dati di entrambe le strutture con una serie di metodi e abbiamo stimato le incertezze sistematiche.

    Gli spettri JCMT e ALMA dell'intero pianeta concordano in velocità e larghezza della linea e sono coerenti nella profondità della linea dopo aver preso in considerazione il filtraggio spaziale di ALMA (quindi, nessuna variazione temporale nell'abbondanza di PH3 deve essere invocata nel 2017-2019). Abbiamo considerato la massima perdita di linea di ALMA, nel caso di una distribuzione PH3 uniforme come il continuo quasi liscioConfrontando i segnali di continuum ALMA con o senza linee di base <33 m nella riduzione dei dati, abbiamo riscontrato perdite di filtraggio che variano da un 60% netto nelle nostre regioni polari al 92% per la nostra banda equatoriale. Correggendo il segnale della linea dell'intero pianeta con questo metodo, il rapporto l:c potrebbe aumentare da −0,9 × 10E−4 a −4,9 × 10E−4 , valori tra parentesi −2,5 × 10E−4 dal JCMT. Quindi, le linee ALMA e JCMT differiscono per fattori da due a tre al massimo, con un accordo possibile se il PH3 è distribuito su scale intermedie (tra macchie altamente uniformi e piccole).

    Infine, per robustezza, abbiamo considerato la possibilità di un "doppio falso positivo", in cui si verifica un calo negativo in entrambi i set di dati vicino alla velocità venusiana. Confrontando i dati prima che avvenga la fase di elaborazione finale dell'adattamento polinomiale, la Fig. 3 mostra che non si verificano altre coincidenze di caratteristiche simili a linee di assorbimento negli spettri JCMT e ALMA.

    Fig. 3: spettri JCMT e ALMA dell'intero pianeta attraverso l'intera banda passante comune a entrambi i set di dati.
    figure3

    Questi sono gli spettri JCMT (verde) e ALMA (viola) aggiunti congiuntamente prima della rimozione di una linea di base polinomiale finale. Lo spettro ALMA è stato ingrandito di un fattore tre, la perdita stimata per il filtraggio spaziale (confrontare le prime due voci del rapporto l:c nella tabella 1 ). Le barre rosse verticali collegano i dati JCMT e ALMA (i centri del bin concordano in velocità entro ± 0,2 km/s). Una caratteristica di linea è considerata reale quando questa dispersione (barra rossa) è bassa; solo l' elemento candidato PH3 intorno a v  = 0 km/s soddisfa questo criterio. Altri "avvallamenti" attraverso la banda hanno un'elevata dispersione (si verificano in un solo set di dati) o coprono solo pochi contenitori contigui (molto meno della larghezza della linea prevista per l'assorbimento nell'atmosfera superiore di Venere).

    Successivamente, abbiamo esaminato se le transizioni da gas diversi dal PH3 potrebbero assorbire a lunghezze d'onda vicine. L'unico candidato plausibile (tabella supplementare 1 ) è una transizione SO2 compensata di +1,3 km/s nel sistema di riferimento di PH3 1–0. Si prevede che questo produrrà una linea debole nelle nuvole, con il suo livello quantico inferiore ad un energia > 600 K non essendo altamente popolato in <300 K di gas. Sono stati rilevati assorbimenti di SO2 da livelli di energia a ~ 100 K, e abbiamo cercato una di queste transizioni nei nostri dati simultanei a banda larga ALMA. Non abbiamo rilevato un assorbimento significativo (Fig. 4a). Data questa osservazione, il nostro modello di trasferimento radiativo prevede quale sarebbe il massimo assorbimento dalla linea SO2 'contaminante' , trovando un debole rapporto l:c, non più profondo di −0,2 × 10E−4 (Fig. 4b). l' SO2 può contribuire al massimo al <10% al rapporto l:c integrato su ± 5 km/s e spostare il centro della linea di <0,1 km/s . Questi risultati sono abbondanti e indipendenti dal modello. La linea del contaminante SO2 potrebbe solo "imitare" la funzione del PH3 mentre la banda SO2 la linea rimaneva inosservata se il gas era più del doppio di quanto misurato nelle nuvole superiori, cioè a temperature che si trovavano solo ad altitudini molto inferiori rispetto alla nostra sonda di dati.

    Fig. 4: Il processo di stima della contaminazione da SO 2 della linea PH 3 .
    figure4

    A sinistra: una sezione di dati a banda larga ALMA (l'intero pianeta, dopo che è stata rimossa una correzione polinomiale di terzo ordine per l'ampia curvatura), attorno alla frequenza di riposo SO2 di 267,53745 GHz (lunghezza d'onda ~ 1,121 mm ). L'istogramma più spesso nell'intervallo ± 10 km/s mostra che l'assorbimento di SO2 non è visibile. La curva tratteggiata rossa è un modello SO2 10 ppb, dopo aver sottratto una linea di forzatura polinomiale ali verso lo zero esterno | v | = ± 10 km/sIl modello a 10 ppb è stato scelto per riprodurre la massima profondità di linea possibile all'interno dei dati, approssimandosi al ripple spettrale picco-picco. La curva rossa piena viene scalata per mostrare l'ampiezza che questa linea di SO2 dovrebbe avere se la linea che identifichiamo come PH3 1–0 è invece tutta attribuita alla transizione SO2A destra: il nostro modello per il contributo massimo consentito di SO2 viene nuovamente tracciato come istogramma verde; questo è il modello tratteggiato in rosso del pannello di sinistra, ma senza alcuna sottrazione polinomiale. Lo spettro del PH3 dell'intero pianeta Fig. (qui un istogramma tratteggiato con punti neri) viene quindi tracciato nuovamente (istogramma solido rosso) dopo la sottrazione di questo modello massimizzato di SO2.

    Non siamo in grado di trovare un'altra specie chimica (nota negli attuali database) oltre al PH3 che possa spiegare le caratteristiche osservate. Concludiamo che il rilevamento candidato del PH3 è altamente probabile, per quattro ragioni principali. In primo luogo, l'assorbimento è stato visto, a una profondità di linea comparabile, con due strutture indipendenti; secondo, le misurazioni di linea sono coerenti con metodi di elaborazione vari e indipendenti; terzo, la sovrapposizione degli spettri delle due strutture non mostra altre caratteristiche negative così coerenti; e quarto, non c'è altra transizione candidata ragionevole nota per l'assorbimento diversa da PH3 .

    Le larghezze di pochi km/s degli spettri del PH3 sono tipiche degli assorbimenti dall'atmosfera superiore di VenereLe tecniche di inversione possono convertire i profili di linea in una distribuzione molecolare verticale, ma questo è difficile qui a causa delle incertezze nella diluizione della linea PH3 e nell'ampliamento della pressione. Poiché il continuum contro il quale vediamo l'assorbimento sorge ad altitudini di ~ 53-61 km , negli strati di nubi medio / superiore , le molecole di PH3 osservate devono essere almeno così in alto. Qui le nuvole sono 'temperate', fino a 30°C, e con pressioni fino a ~ 0,5 barTuttavia, il PH3 potrebbe formarsi ad altitudini più basse (più calde) e poi diffondersi verso l'alto.

    Il PH3 viene rilevato più fortemente alle medie latitudini e non viene rilevato ai poli (Tabella 1 ). La zona equatoriale sembra assorbire più debolmente delle medie latitudini, ma i valori equatoriali e medi della latitudine potrebbero concordare se si apportassero correzioni per il filtraggio spaziale. Seguendo il metodo sopra (trattando il gas come se fosse distribuito come il continuo), il rapporto l:c può essere profondo fino a −4,6 × 10E-4 per l'equatore e −5,8 × 10E-4 per le medie latitudini, in accordo a i limiti 1σ (entrambi ± 0,7 × 10E-4 ). Tuttavia, per le calotte polari, il rapporto l:c non può superare −0,7 × 10E-4 con questo metodo. I nostri intervalli di latitudine sono stati impostati empiricamente, per massimizzare i contrasti nel rapporto l:c, quindi potrebbero non rappresentare zone fisiche. Non siamo stati in grado di confrontare bande di longitudine (ad esempio, per qualsiasi effetto dell'angolo solare), poiché le regioni più vicine all'arto presentavano problemi crescenti di rumore e ripple spettrale.

    L'abbondanza di PH3 nell'atmosfera di Venere è stata stimata confrontando una linea del modello con lo spettro JCMT, che ha le minori perdite di segnale. Il trasferimento radiativo nell'atmosfera di Venere è stato calcolato utilizzando un modello sferico multistrato, con profili di temperatura e pressione provenienti dalla Venus International Reference Atmosphere (VIRA). Gli assorbimenti molecolari sono calcolati da un codice riga per riga, inclusa l'opacità indotta dal continuo di CO2 . La diluizione del fascio JCMT è inclusa. L'abbondanza calcolata è di ~ 20 ppb (Fig. 1). La principale incertezza del modello è nel coefficiente di ampliamento della pressione di CO2 , che non è stato misurato per il PH3 . Prendiamo per il PHi coefficienti di ampliamento della linea 1–0 che vanno da 0,186 cm−1  atm−1 , (nostra stima teorica) a 0,286 cm−1  atm−1 (il valore misurato per l'allargamento di CO2 della linea NH3 1-0). L'ammoniaca e il PH3 condividono molte somiglianze (vedere "Recupero dell'abbondanza" in Metodi) e ci si può aspettare che abbiano proprietà di ampliamento comparabiliCon questo intervallo dei coefficienti, le abbondanze derivate vanno da ~ 20 ppb (utilizzando la nostra stima teorica) fino a ~ 30 ppb (utilizzando il proxy NH3). Inoltre, l'incertezza nel rapporto l:c nello spettro JCMT contribuisce per ~ 30% (± 6 ppb), con ulteriori spostamenti di −2, + 5 ppb possibili dalla sistematica (Tabella 1 ).

    La presenza anche di poche parti per miliardo di PH3 è del tutto inaspettata per un'atmosfera ossidata (dove i composti contenenti ossigeno dominano notevolmente su quelli contenenti idrogeno). Esaminiamo tutti gli scenari che potrebbero plausibilmente creare PH3 , data la conoscenza consolidata di Venere.

    La presenza di PH3 implica una fonte atmosferica, superficiale o sotterranea di fosforo, o la consegna dallo spazio interplanetario. Gli unici valori misurati del fosforo atmosferico su Venere provengono dalle sonde di discesa Vega , che erano sensibili solo al fosforo come elemento, quindi la sua speciazione chimica non è nota. Nessuna specie di fosforo è stata segnalata sulla superficie planetaria.

    La maggior parte del fosforo presente nell'atmosfera o nella superficie di Venere è prevista come forme ossidate di fosforo, ad esempio fosfati. Considerando tali forme e adottando i dati di abbondanza di Vega (il valore più alto dedotto, più favorevole per la produzione di PH3 ), calcoliamo se la termodinamica di equilibrio in condizioni rilevanti per l'atmosfera, la superficie e il sottosuolo venusiano può fornire ~ 10 ppb di PH3 . (Adottiamo un limite inferiore che si adatti adeguatamente ai dati JCMT, per trovare la soluzione termodinamica più facilmente ottenibile.) Troviamo che la formazione di PH3 non è favorita anche considerando ~ 75 reazioni rilevanti in migliaia di condizioni che comprendono qualsiasi probabile proprietà dell'atmosfera, della superficie o del sottosuolo (a temperature di 270-1.500 K, e pressioni atmosferiche e sotterranee di 0,25-10.000 bar, con un ampio intervallo di concentrazioni di reagenti). L'energia libera delle reazioni è inferiore ovunque da 10 a 400 kJ/molIn particolare, escludiamo quantitativamente l'idrolisi del fosfuro geologico o meteoritico come fonte del PH3 venusiano Si esclude anche la formazione di acido fosforoso (H3 PO3). Mentre l'acido fosforoso può essere sproporzionato rispetto al PH3 per riscaldamento, la sua formazione a temperature e pressioni di Venere richiederebbe condizioni piuttosto irrealistiche, come un'atmosfera composta quasi interamente da idrogeno.

    La durata della vita del PH3 su Venere è la chiave per comprendere i tassi di produzione che porterebbero all'accumulo di concentrazioni di pochi ppb. Questa vita sarà molto più lunga che sulla Terra, la cui atmosfera contiene un notevole ossigeno molecolare e i suoi radicali fotochimicamente generati. La vita sopra gli 80 km su Venere (nella mesosfera) è costantemente prevista dai modelli per essere inferiore ai mille secondi, principalmente a causa delle alte concentrazioni di radicali che reagiscono e distruggono il PH3 . Vicino alla base dell'atmosfera, la durata stimata è di ~ 10E8 secondi, a causa dei meccanismi di decomposizione termica (distruzione collisionale). La durata della vita è molto limitata ad altitudini intermedie (<80 km), essendo dipendente dall'abbondanza di specie di radicali in tracce, in particolare il cloro. Questi tempi di vita sono incerti per ordini di grandezza, ma sono sostanzialmente più lunghi del tempo necessario per miscelare il  PH3 dalla superficie a 80 km (<1000 anni). La durata del PH3 nell'atmosfera non è quindi superiore a 1000 anni, o perché viene distrutta più rapidamente o perché viene trasportata in una regione in cui viene rapidamente distrutta.

    Si stima il flusso degassamento del PH3 necessaria per mantenere i livelli di ~ 10 ppb, prendendo la colonna di PH3 derivata da osservazioni e dividendo questo per la durata chimica del PH3 nell'atmosfera di Venere (Fig. 5). Il flusso di degassamento totale necessario per spiegare ~ 10 ppb di PH 3 è ~ 10E6 –10E7  molecole/cm2 s (tempi di vita più brevi porterebbero a requisiti di flusso più elevati). Le reazioni fotochimiche nell'atmosfera di Venere non possono produrre PH3 a questa velocità. Per generare PHdalle specie di fosforo ossidato, i radicali generati fotochimicamente devono ridurre il fosforo estraendo ossigeno e aggiungendo idrogeno, che richiedono reazioni prevalentemente con H, ma anche con radicali O e OH. I radicali di idrogeno sono rari nell'atmosfera di Venere a causa delle basse concentrazioni di potenziali fonti di idrogeno (specie come H2O e H2S che vengono fotolizzate con ultravioletti per produrre radicali H). Modelliamo una rete di reazioni in avanti (cioè, da specie di fosforo ossidato a PH3 ), non solo come un tasso di produzione massimo conservativo per PH3 ma anche perché molti dei tassi di reazione di ritorno non sono noti. Troviamo che le velocità di reazione dei radicali H con le specie di fosforo ossidato sono troppo lente per fattori 10E4 –10E6 sotto le temperature e le concentrazioni nell'atmosfera venusiana (Fig. 5).

    Fig. 5: La produzione fotochimica massima prevista di PH 3 è risultata insufficiente per spiegare le osservazioni di oltre quattro ordini di grandezza.
    figura5

    a , Limiti superiori dei tassi di produzione fotochimici previsti di PH 3 (escluso trasporto; curva rossa, s −1 ) rispetto ai tassi di distruzione fotochimica (curva blu, s −1 ), inclusi radicali e atomi (solido blu) e ignorando i radicali e atomi (tratteggiati in blu), in funzione dell'altezza (km). Vedere rete cinetica di Extended dati Fig. 7 . b , Rapporto di miscelazione di PH 3 in funzione dell'altezza atmosferica (km), per un flusso di produzione ( ϕ (PH 3 )) all'interno dello strato di nubi (~ 55-65 km) di 10 7  cm −2  s −1(curva solida), rispetto al limite superiore abiotico previsto allo stato stazionario (curva tratteggiata). Vedere rete cinetica di Extended dati Fig. 7 .

    Anche gli eventi energetici non sono un percorso efficace per fare PH3 . Su Venere possono verificarsi fulmini, ma a livelli di attività inferiori ai terrestriTroviamo che la produzione di PH3 da parte dei fulmini venusiani sarebbe inferiore all'abbondanza di pochi ppb per fattori di 10E7 o più. Allo stesso modo, dovrebbe esserci circa 200 volte più attività vulcanica su Venere che sulla Terra per iniettare abbastanza PH3 nell'atmosfera (fino a ~ 10E8 volte, a seconda delle ipotesi sulla chimica della roccia del mantello). Studi topografici degli Orbiter hanno suggerito che non ci sono molti punti caldi vulcanici grandi, attivi e su VenereLa consegna meteoritica aggiunge al massimo alcune tonnellate di fosforo all'anno (per l'accumulo di meteoriti simile alla Terra). Anche i processi esotici come i processi tribochimici (di attrito) su larga scala e i protoni del vento solare generano solo PH3 in quantità trascurabili (W. Bains et al., Manoscritto in preparazione, presentato ad Astrobiology come "La fosfina su Venere non può essere spiegata dai processi convenzionali'').

    Discussione:

    Se nessun processo chimico noto può spiegare il PH3 all'interno dell'atmosfera superiore di Venere, allora deve essere prodotto da un processo non precedentemente considerato plausibile per le condizioni venusiane. Questa potrebbe essere fotochimica o geochimica sconosciuta, o forse vitaLe informazioni mancano: ad esempio, la fotochimica delle goccioline delle nuvole venusiane è quasi completamente sconosciuta. Si deve quindi considerare una possibile fonte fotochimica in fase gocciolina per PH3 (anche se PH3 è ossidato dall'acido solforico). Anche le domande sul perché organismi ipotetici su Venere potrebbero produrre PH3 sono altamente speculative.

    Quantitativamente, possiamo notare che i tassi di produzione di ~ 10E6 - 10E7 molecole/cm2 s , desumibili sono inferiori alla produzione da alcuni ecologie terrestri, di circa 10 volteConsiderando anche la distribuzione, il PH3 su Venere è presente o vicino alle altitudini temperate, ed è carente intorno alle calotte polari. È stato suggerito che le cellule di circolazione di Hadley a latitudine media offrono l'ambiente più stabile per la ipotetica vita, con tempi di circolazione di 70–90 giorni adeguati per la riproduzione dei microbi (analoghi della Terra). PH3 non viene rilevato da ALMA al di sopra di un limite di latitudine di ~ 60°, concordando entro ~ 10° con il limite superiore della cella di Hadley proposta, dove il gas circola ad altitudini inferiori. Tuttavia, è auspicabile un ulteriore lavoro sui processi di diffusione.

    Nel contesto delle ricerche sulla biosegnatura del Sistema Solare, le nostre osservazioni della linea PH3 1–0 si sono dimostrate efficaci per un tempo di struttura modesto (<10 ore alla fonte). L'abbondanza di PH3 è sufficientemente limitata (entro i fattori ~ 2–3) per una modellazione utile e non è necessaria alcuna introduzione ad hoc di effetti temporali. Abbiamo escluso i contaminanti e le linee strette indicano che una specie chimica attualmente sconosciuta dovrebbe avere una transizione a una lunghezza d'onda estremamente vicina per imitare la linea PH3 1-0. Tuttavia, la conferma è sempre importante per un rilevamento di transizione singola. Dovrebbero essere ricercate altre transizioni PH3 , sebbene l'osservazione di caratteristiche spettrali ad alta frequenza possa richiedere un futuro grande telescopio aereo o spaziale.

    Anche se confermato, sottolineiamo che il rilevamento di PH3 non è una prova robusta per la vita, ma solo per una chimica anomala e inspiegabile. Ci sono problemi concettuali sostanziali per l'idea della vita nelle nuvole di Venere: l'ambiente è estremamente disidratante oltre che iperacidico. Tuttavia, abbiamo escluso molte vie chimiche verso la sintesi del PH3 , con le più probabili mancanze di 4-8 ordini di grandezzaPer discriminare ulteriormente tra processi fotochimici e / o geologici sconosciuti come fonte di PH3  venusiano, o per determinare se c'è vita tra le nuvole di Venere, saranno importanti la modellazione e la sperimentazione sostanziali. In definitiva, una soluzione potrebbe venire dalla rivisitazione di Venere per misurazioni in situ o ritorno di aerosol.

    Potenziali percorsi per la produzione di PH3

    I potenziali percorsi di produzione di PH3 nell'ambiente venusiano sono discussi in dettaglio nelle informazioni supplementari (W. Bains et al., Manoscritto in preparazione). Sono state considerate due possibili classi di percorsi per la produzione di PH3 : produzione fotochimica o chimica non fotochimica.

    Per la modellazione fotochimica, abbiamo creato una rete di reazioni di parametri cinetici noti che potrebbero portare da H3 PO4 (acido fosforico) a PH3 (fosfina), per reazione con radicali fotochimicamente generati nell'atmosfera venusiana. Laddove le reazioni erano possibili ma non erano noti dati cinetici per le specie di fosforo, è stata invece utilizzata la cinetica di reazione delle specie di azoto omologhe, convalidata confrontando le reazioni di specie di azoto e fosforo analoghe. Il tasso massimo possibile per la chimica riduttiva in questa rete è stato confrontato con il tasso di distruzione in funzione dell'altitudine.

    Le reazioni non fotochimiche sono state modellate termodinamicamente. Per la chimica superficiale e atmosferica, abbiamo creato un elenco di sostanze chimiche, le loro concentrazioni e reazioni, per tutte le potenziali reazioni di produzione di PH3 . Le abbondanze delle specie di fosforo sono state calcolate in modo dinamico e si presume che fossero in equilibrio con le specie liquide / solide alla base della nuvola. L'energia libera di reazione, che indica se la produzione netta di PH3 era termodinamicamente favorita, è stata calcolata utilizzando metodi standardNessuna delle reazioni favorisce la formazione di PH3 , avendo mediamente un'energia libera di reazione di +100 kJ/mol.

    La modellazione della chimica del sottosuolo è stata affrontata tramite la fugacità dell'ossigeno ( f O2 ), oltre alla concentrazione teorica di ossigeno libero nelle rocce crostali. Modelliamo quindi l'equilibrio tra fosfato e PH3 , per temperature comprese tra 700 K e 1.800 K, a 100 o 1.000 bar, e con 0,01%, 0,2% e 5% di acqua. La fugacità di ossigeno della crosta plausibile e delle rocce del mantello sulla base dei dati geologici del lander Venus è di 8-15 ordini di grandezza troppo alta per supportare la riduzione del fosfato, quindi il degassamento delle rocce del mantello produrrebbe solo quantità insignificanti di PH3 . La consegna vulcanica, fulminea e meteoritica è stata calcolata sulla base di parallelismi con i tassi terrestri di eventi all'interno dell'atmosfera venusiana e sono stati calcolati come trascurabili.

    PH3 e ipotesi sulla vita venusiana

    Nelle informazioni supplementari , riassumiamo brevemente le idee sul perché le nuvole venusiane temperate ma iperacidiche sono state proposte per decenni come potenzialmente abitabili, nonostante ovvie difficoltà come resistere alla distruzione da parte dell'acido solforico. In precedenza abbiamo proposto che qualsiasi molecola di PH3 rilevabile trovato nell'atmosfera di un pianeta roccioso sia un promettente segno di vita e abbiamo dimostrato che la produzione biologica di PH3 è favorita da condizioni fresche e acide. La modellizzazione iniziale basata sulla biochimica terrestre suggerisce che la riduzione biochimica del fosfato a PHè termodinamicamente fattibile nelle condizioni delle nubi di Venere (W. Bains et al., manoscritto in preparazione). Abbiamo anche descritto un possibile ciclo di vita per una biosfera aerea venusiana .

    LINK (EN) :

     - https://www.nature.com/articles/s41550-020-1174-4 

     - https://www.eso.org/public/archives/releases/sciencepapers/eso2015/eso2015a.pdf 

    _________________________________

    La fosfina è presente negli spettri di massa delle nuvole di Venere:
    Rakesh Mogul , Sanjay S. Limaye , MJ Way , Jamie A. Cordova Jr.
    Considerando le implicazioni del rilevamento della fosfina (PH3) segnalato da una singola riga spettrale da Greaves et al., Siamo stati ispirati a riesaminare i dati ottenuti dallo spettrometro di massa neutrale Pioneer-Venus Large Probe (LNMS) per cercare prove di composti di fosforo . 
    Il LNMS ha ottenuto masse di gas neutri (e dei loro frammenti) a diverse altitudini all'interno delle nuvole di Venere. 
    I dati spettrali di massa pubblicati corrispondono a gas ad altitudini di 50-60 km, o all'interno delle nubi inferiori e medie di Venere, zona che è stata identificata come potenzialmente abitabile. 
    Troviamo che i dati LMNS supportano la presenza di fosfina; anche se le origini della fosfina rimangono sconosciute.


    _________________________________
    _________________________________
    VENERE, STORIA DELLE OSSERVAZIONI

    Le osservazioni degli antichi:
    Introduzione:
    Conosciuto probabilmente già nella preistoria, Venere fu osservato poi da tutte le culture antiche come quella dei babilonesi che lo chiamarono Ištar, in onore della dea dell'amore, dell'erotismo e della guerra. Egizi, Greci, Maya e Romani distinguevano invece le apparizioni mattutine e serali in due corpi distinti, chiamandolo stella del mattino o stella della sera: Lucifero quando appariva prima dell'alba e Vespero quando appariva a ovest al calar del Sole. Per via del suo splendore in molte culture, tra cui quella Maya, Venere rappresentava due divinità gemelle, in cui venivano rispettivamente identificati Quetzalcoatl nella Stella del Mattino e Xolotl nella Stella della Sera. Era inoltre l'astro più studiato nei suoi movimenti in cielo. Per gli Inca rappresentava Chasca, dea dell'aurora dai lunghi capelli ricci, considerata il paggio del Sole poiché non si discostava mai troppo da esso.

    Babilonesi e Greci:
    È descritto dai Babilonesi in svariati documenti in scrittura cuneiforme, come il testo detto la Tavoletta di Venere di Ammi-Saduqa. I Babilonesi chiamarono il pianeta Ishtar, la dea della mitologia babilonese (connaturata con la dea Inanna dei Sumeri), personificazione dell'amore ma anche della battaglia. Gli Egizi identificavano Venere con due pianeti diversi, e chiamavano la stella del mattino Tioumoutiri e la stella della sera Ouaiti. Allo stesso modo, i Greci distinguevano tra la stella del mattino Φωσφόρος (Phosphoros) e la stella della sera Ἕσπερος (Hesperos); tuttavia, nell'epoca Ellenistica si comprese che si trattava dello stesso pianeta. Hesperos fu tradotto in Latino come Vespero e Phosphoros come Lucifero ("portatore di luce"), termine poetico in seguito utilizzato per l'angelo caduto allontanato dal cielo.

    Simbolo dell'Italia:
    Hesperia fu anche uno dei nomi dati dai Greci all'Italia meridionale e il simbolo associato divenne il più antico dei simboli patri italiani, conosciuto come stella d'Italia e raffigurato nel simbolo ufficiale della repubblica italiana (vedi sotto).


    Divinità:
    Tra i popoli dell'antichità la stella del mattino venne associata con la divinità di Astarte in Siria, che corrisponde alla divinità greca di Afrodite e alla latina Venere, ne è il motivo il grande fascino della sua luce di stella del mattino che personificava la divinità della bellezza. Il pianeta Venere venne riconosciuto come divinità da molti popoli, tra cui gli indiani; nello gnosticismo Lucifero era il portatore della sophia (sapienza).

    Ebrei:
    Gli Ebrei chiamavano Venere Noga ("luminoso"), Helel ("chiaro"), Ayeleth-ha-Shakhar ("cervo del mattino") e Kochav-ha-'Erev ("stella della sera").

    Maya:
    Venere era importante per la civiltà Maya, che sviluppò un calendario religioso basato in parte sui suoi movimenti, e si basava sulle fasi di Venere per valutare il tempo propizio per eventi quali le guerre.

    (a lato tavoletta Maya).

    Masai:
    Il popolo Masai definì Venere Kileken, e ha una tradizione orale, incentrata sul pianeta, denominata "Il bambino orfano".

    Aborigeni:
    Venere ha un ruolo significativo nelle culture degli australiani aborigeni, come gli Yolngu nell'Australia del Nord. Gli Yolngu si radunavano per aspettare la comparsa di Venere, che chiamavano Barnumbirr, e che, secondo la tradizione, permetteva di comunicare con i propri cari morti.

    Altri:
    Durante il periodo dello Stil Novo il pianeta fu anche chiamato Stella Diana, nome che non derivava dalla omonima dea della caccia, ma dal latino dies (giorno), intendendolo così come la stella che annuncia il dì.
    Nell'astrologia indiana del Veda, Venere è nota come Shukra, ovvero "chiara, pura" in lingua sanscrita.
    Gli antichi astronomi Cinesi, Coreani, Giapponesi e Vietnamiti chiamavano il pianeta "la stella (o astro) d'oro", collegandolo al metallo nella teoria dei cinque elementi cinesi.
    Nella spiritualità Lakota Venere è associata con l'ultima fase della vita e con la saggezza.

    Le prime osservazioni scientifiche:

    Galileo:
    Fu Galileo Galilei il primo a studiare Venere, osservandolo con il suo cannocchiale. Egli riuscì ad osservare le fasi e notò che queste erano simili a quelle della Luna, dimostrando la correttezza della teoria eliocentrica predetta qualche decennio prima dall'astronomo polacco Niccolò Copernico che sosteneva che Venere era posto tra la Terra e il Sole e ruotava attorno a quest'ultimo. A maggior sostegno della teoria c'era anche l'osservazione di Galileo della variazione del diametro angolare di Venere durante le sue diverse fasi a seconda della sua distanza dalla Terra. Tuttavia, come usavano al tempo molti dotti quando ancora non erano completamente sicuri delle loro scoperte, Galileo inviò a Giuliano de' Medici a Praga l'11 Dicembre 1610 che lo comunicò subito a Keplero, l'anagramma in latino "Haec immatura a me frustra leguntur oy" ("Queste cose premature sono da me dette invano") che si risolveva in seguito come: "Mater Amorum aemulatur Cinthyae figuras" ovvero "La madre degli amori (Venere) imita le forme di Cinzia (la Luna)".


    Halley, Cassini, Schiaparelli, Herschel, ecc. :
    Nel 1677 Edmond Halley suggerì di misurare la distanza Terra-Sole con osservazioni da diversi luoghi della Terra, in particolare in occasione dei transiti di Venere. Successive spedizioni in vari luoghi del mondo permisero di misurare la parallasse del Sole in 8,85 secondi d'arco. I transiti storici di Venere furono particolarmente importanti al riguardo; inoltre il transito del 1761 permise all'astronomo russo Michail Lomonosov di ipotizzare la presenza di un'atmosfera su Venere.

    Lo spesso strato di nubi e l'alta luminosità del pianeta hanno costituito un serio ostacolo nell'individuazione del periodo di rotazione del pianeta. Cassini e Francesco Bianchini osservarono Venere e mentre il primo ipotizzò un periodo di 24 ore, Bianchini teorizzò un periodo di 24 giorni. Tuttavia William Herschel si accorse che il pianeta era ricoperto da uno spesso strato di nubi e che il periodo di rotazione non poteva dunque essere determinato con sicurezza. Così rimase un enigma anche se nel XVIII secolo molti astronomi pensavano che esso fosse di 24 ore, assumendo corrette le osservazioni di Cassini. Giovanni Schiaparelli fu il primo a sollevare nuove obiezioni a questa ipotesi ipotizzando che, come Mercurio, anche Venere fosse in rotazione sincrona, "bloccato" dal Sole. Schiapparelli infatti concluse i suoi studi l'11 agosto 1878 scrivendo: "Addio bella Afrodite, ormai la tua rotazione non sarà più un segreto".

    Nel 1932, W. Adams e T. Dunham mediante osservazioni spettroscopiche nell'infrarosso scoprirono linee di assorbimento del carbonio che permisero di ipotizzare che l'anidride carbonica fosse predominante nell'atmosfera venusiana.

    Nel 1961, durante una congiunzione, il periodo di rotazione di Venere fu misurato con il radiotelescopio di Goldstone, in California, anche se fu confermato definitivamente il suo moto retrogrado solo nel 1964. Intanto nel 1962 il Mariner 2 aveva raggiunto con successo il pianeta, inviando i primi dati su temperatura superficiale e composizione atmosferica.

    Transiti:
    Un transito di Venere è un evento molto raro e avviene quando il pianeta si interpone fra la Terra e il Sole, oscurandone una piccola parte del disco. Solo gli ultimi due transiti, quelli del 2004 e del 2012, sono avvenuti successivamente all'acquisizione di conoscenze sul pianeta grazie all'esplorazione in loco con sonde spaziali e sono stati osservati con strumenti scientifici moderni. Nella storia dell'astronomia moderna e contemporanea i transiti di Venere sono considerati molto importanti sotto diversi punti di vista, tra cui quello della esatta misurazione dell'unità astronomica, la distanza tra la Terra e il Sole. I transiti avvengono a coppie, con un intervallo di otto anni tra i transiti di ciascuna coppia e intervalli di 121,5 e 105,5 anni tra coppie successive.


    C'è qualche menzione di transiti di Venere sul Sole in epoche antiche, come quella dello scienziato persiano Avicenna che riporta di aver osservato Venere nel 1032 come una macchia che passava sopra il Sole, concludendo che il pianeta fosse più vicino al Sole di quanto lo sia la Terra.
    Anche l'astronomo arabo Ibn Bajja menzionò transiti di Mercurio e Venere sul Sole nel XII secolo; tuttavia studi storici di Bernard R. Goldstein e altri nel XX secolo escludono che questi transiti possano essere stati effettivamente osservati ad occhio nudo, concludendo che i due astronomi molto probabilmente osservarono delle macchie solari.

    La prima previsione di un transito di Venere fu di Keplero nel 1631, anche se nessuno all'epoca riuscì ad osservarlo perché non visibile dall'Europa. Keplero non aveva previsto il transito che avvenne 8 anni dopo, cosa che fece il giovane astronomo britannico Jeremiah Horrocks, che nel 1639 osservò per primo un transito di Venere davanti al Sole. Da Horrocks in poi sono stati osservati solo altri sei transiti nel corso della storia, tra cui quello del 1761 che permise la scoperta dell'esistenza di un'atmosfera su Venere.

    In quegli anni però lo studio dei transiti era volto alla stima della distanza Terra-Sole, su suggerimento di Halley che agli inizi del XVIII secolo aveva rivolto un appello agli astronomi più giovani dell'epoca, astronomi che avrebbero potuto essere ancora in vita in occasione dei successivi transiti del 1761 e del 1769. Molti astronomi di diverse nazionalità raggiunsero le località, sparse per il mondo e a volte difficli da raggiungere, da dove sarebbero stati visibili i transiti previsti. Particolarmente sfortunato fu l'astronomo francese Guillaume Le Gentil, che dopo aver perso il transito del 1761 osservabile dall'India perché a bordo di una nave in movimento, perse anche quello di otto anni dopo perché quel giorno il cielo si rannuvolò. Tornato in Francia ebbe anche la brutta sorpresa di trovarvi la moglie risposata mentre lui era stato dato per morto dalle autorità. Il famoso navigatore britannico James Cook intraprese nel 1768 il suo primo viaggio diretto a Tahiti perché incaricato dalla Royal Society di studiare un transito di Venere. Nel 1771 Jérôme Lalande, un altro astronomo francese, utilizzando i dati dei transiti precedenti stimò in 153 milioni di chilometri la distanza della Terra dal Sole, distanza poi corretta nel secolo successivo da Simon Newcomb in 149,67 milioni di km grazie alle osservazioni dei transiti del 1874 e del 1882.

    Missioni spaziali URSS:
    La storia delle esplorazioni spaziali verso Venere nasce nel 1961 con la missione sovietica Venera 1 che effettuò il fly-by del pianeta senza però riuscire a trasmettere alcun dato. Il programma Venera continuò fino al 1983 con 16 missioni di successo.

    È oggi noto che Venere possieda una superficie rovente su cui insiste un'atmosfera corrosiva con un'altissima pressione, ma in passato questi dati erano sconosciuti e ciò lasciò campo aperto a qualsiasi ipotesi. Carl Sagan teorizzò che Venere fosse coperta da un oceano non di acqua, ma di idrocarburi. Altri studiosi ritenevano che il pianeta fosse ricoperto da paludi mentre altri ancora ipotizzavano un mondo desertico. Gli scienziati sovietici delle missioni Venera erano così propensi ad aspettarsi un oceano che sulla sonda Venera 4, lanciata nel 1967, installarono un morsetto fatto di zucchero bianco raffinato che a contatto con l'acqua (o un altro fluido dotato della giusta composizione e temperatura) si sarebbe sciolto facendo scattare l'antenna che con questo stratagemma si sarebbe salvata dall'affondamento della sonda. Su Venere la sonda Venera 4 non solo non trovò un oceano, ma non raggiunse neppure la superficie. Smise infatti di trasmettere quando la pressione atmosferica superò le 15 atmosfere, soltanto una frazione delle 93 atmosfere presenti sulla superficie del pianeta.


    Comunque si trattava di un risultato straordinario: per la prima volta un veicolo costruito dall'uomo aveva comunicato dati relativi all'analisi delle condizioni di un ambiente extraterrestre. I sovietici studiarono quindi una sonda più resistente. Il gruppo di Anatolij Perminov ipotizzò dapprima che la sonda dovesse resistere a una pressione di 60 atmosfere, quindi di 100 e infine di 150 atmosfere.[34] Per tre anni il gruppo di Perminov testò le sonde in condizioni estreme e, per simulare l'atmosfera di Venere, costruì la più grande pentola di Papin, una pentola a pressione gigantesca, in cui le sonde venivano immesse finché non si schiacciavano o fondevano.


    Venera 7 fu costruita per sopportare una pressione di 180 atmosfere e lanciata il 17 agosto 1970; il 15 dicembre dello stesso anno trasmise il segnale tanto atteso. La prima sonda costruita dall'uomo era atterrata su un altro pianeta e aveva comunicato con la Terra. Nel 1975 i sovietici inviarono le sonde gemelle Venera 9 e 10 equipaggiate con un disco frenante per la discesa nell'atmosfera e di ammortizzatori per l'atterraggio.

    (a lato foto VENERA 9).

    Le sonde trasmisero immagini in bianco e nero della superficie di Venere mentre le sonde Venera 13 e 14 rimandarono le prime immagini a colori di quel mondo. (vedi sotto).


    Missioni spaziali USA:
    La NASA iniziò il suo programma di esplorazione spaziale verso Venere nel 1962 con il programma Mariner: tre sonde riuscirono con successo ad effettuare un fly-by del pianeta e trasmettere i dati alla Terra. Nel 1978 nell'ambito del progetto Pioneer Venus per lo studio dell'atmosfera venusiana gli statunitensi lanciarono diverse sonde separate verso Venere. Negli anni ottanta i sovietici proseguirono invece con le sonde Venera: le Venera 15 e 16 lanciate nel 1983 e dotate di Radar ad apertura sintetica mapparono l'emisfero nord del pianeta rimanendo in orbita attorno ad esso. Nel 1985 i sovietici lanciarono anche le sonde Vega 1 e 2 che rilasciarono moduli sulla superficie prima di andare verso l'incontro con la cometa di Halley, l'altro oggetto di studi di quelle missioni. Vega 2 atterrò nella regione Aphrodite raccogliendo un campione di roccia contenente anortosite - troctolite, materiale raro sulla Terra, ma presente negli altopiani lunari.

    Nel 1989 la NASA, utilizzando lo Space Shuttle, lanciò verso Venere la Sonda Magellano, dotata di un radar che permise una mappa quasi completa del pianeta con una risoluzione nettamente migliore di quella delle precedenti missioni, lavorando per ben 4 anni prima della caduta e della conseguente distruzione nell'atmosfera venusiana, anche se qualche frammento potrebbe essere arrivato sulla superficie.

    Negli ultimi decenni, per risparmiare combustibile, Venere è stato spesso usato come fionda gravitazionale per missioni dirette verso altri pianeti del sistema solare. Fu il caso della sonda Galileo, diretta verso Giove e le sue lune, e la missione Cassini-Huygens, diretta all'esplorazione del sistema di Saturno, che effettuò due fly-by con Venere tra il 1998 e il 1999 prima di dirigersi verso le regioni esterne del sistema solare. Nel 2004 il pianeta venne usato due volte come fionda gravitazionale dalla sonda MESSENGER per dirigersi all'interno del sistema solare verso Mercurio.

    Venus Express, lanciata nel 2006, ha eseguito una mappatura completa della superficie e sebbene fosse inizialmente prevista una durata della missione di due anni, essa è stata estesa fino al dicembre del 2014. In otto anni la sonda ha fornito prove dell'esistenza passata di oceani, evidenze di fulmini nell'atmosfera e ha individuato un gigantesco doppio vortice polare al polo sud. Inoltre ha individuato la presenza del gruppo ossidrilico nell'atmosfera e di un sottile strato di ozono.

    Un ipotetico satellite.... Neith:
    Venere non ha satelliti naturali, sebbene in passato questo dato non fosse certo: tra il 1600 e il 1800 più di un astronomo affermò di averne osservati. Il primo fu Francesco Fontana, che credette di aver osservato una o più lune per ben quattro volte tra il 1645 e il 1646. Le osservazioni si ripeterono negli anni a cura di altri astronomi celebri, Cassini, Lagrange, Lambert e altri, calcolando anche l'orbita del satellite e attribuendogli il nome di Neith. Nel 1887 l'accademia belga delle scienze pose fine ad ogni dubbio indagando sulle rilevazioni passate e analizzando i transiti di stelle che avrebbero potuto portare all'errore.


    SCHEDA RIASSUNTIVA DI VENERE:
    ___________________________________________________

    Asteroidi co-orbitali di Venere:

    (524522) 2002 VE68
    ZOOZVE

    Introduzione:
    Venere ha un quasi-satellite ZOOZVE, è un asteroide scoperto l'11 novembre 2002 da LONEOS, presso l'Osservatorio Lowell.
    Fu il primo oggetto del genere ad essere scoperto intorno a un grande pianeta del Sistema Solare.
    Quando l'artista Alex Foster ha disegnato questo oggetto su un poster del sistema solare per bambini, ha scambiato i caratteri dei numeri della designazione provvisoria come lettere, coniando così un nome strano e memorabile, l'ufficialità del nome è stata suggerita da Latif Nasser.

    L'esistenza di satelliti o quasi-satelliti retrogradi fu presa in considerazione per la prima volta da J. Jackson nel 1913 ma nessuno fu scoperto fino a quasi 100 anni dopo. 2002 VE68 è stato il primo quasi-satellite ad essere scoperto, nel 2002, sebbene non sia stato immediatamente riconosciuto come tale. 2002 VE68 è stato identificato come un quasi-satellite di Venere da Seppo Mikkola , Ramon Brasser, Paul A. Wiegert e Kimmo Innanen nel 2004, due anni dopo l'effettiva scoperta dell'oggetto. Dal punto di vista di un ipotetico osservatore in una cornice di riferimento che ruota con Venere, sembra viaggiare intorno al pianeta durante un anno venusiano sebbene non orbiti attorno a Venere ma al Sole come qualsiasi altro asteroide .

    Dati fisici:
    Le sue dimensioni piuttosto irregolari sono molto limitate essendo comprese tra i 210 ed i 470 m, con una massa di 9,5 × 1020  ed una densità di 2,08 kg/dm3.
    Lo spettro di 2002 VE68 implica che si tratta di un asteroide di tipo X e quindi un'albedo di circa 0,25.
    COLORI:
    B–V = 0.690±0.041
    V–R = 0.404±0.037
    V–I = 0.751±0.039

    Per l'asteroide si è calcolato una misura di 236 metri di diametro. Il suo periodo di rotazione è di 13,5 ore e la sua curva di luce ha un'ampiezza di 0,9 mag che accenna ad un corpo molto allungato, forse potrebbe essere anche un binario di contatto.

    Curva di luce:
    ( Nel grafico la Curva di luce che indica il periodo di rotazione ).

    Parametri orbitali:
    Questo asteroide è anche geosecante e ermeosecante, e si ipotizza che si trovi in orbita attorno a Venere da almeno 7.000 anni, ma che sia destinato ad essere espulso da questa configurazione orbitale all'incirca tra 500 anni, in questo periodo la sua distanza da Venere rimarrà superiore a 0,2 UA (3 × 107 km) , è stato oggetto di osservazioni Doppler in 5 occasioni; pertanto, la sua orbita è molto ben determinata.
    Ha un semiasse maggiore dell'orbita di 0,7236703122 UA, e spazia da un perielio di 0,42670526 UA fino ad un afelio di 1,0206353604 UA, quindi sfiora sia Mercurio che la Terra, con un'eccentricità orbitale di 0,41035958 ed una inclinazione di 10,587° rispetto all'eclittica.
    Il suo periodo di rivoluzione è di 224,8586307 anni, e tale periodo oscilla intorno alla risonanza 1:1 con Venere, in maniera stabile per almeno altri 500 anni. ( vedi grafici SOTTO ).

    ( Nell'animazione l'orbita apparente di 2002 VE68 in rosa, Venere è il puntino bianco fisso, l'orbita interna è quella di Mercurio, in blu quella della Terra, e si intravede in rosso quella di Marte ).

    ( Grafico dell'orbita eliocentrica ).

    Stabilità:
    ( SOPRA - Nel grafico la variazione del periodo di rivoluzione nei prossimi 625 anni // SOTTO - Il solito grafico con un periodo di 3381 anni, dove si può notare che in base ai calcoli si prevede che questo asteroide subirà un'uscita da questa configurazione orbitale dopo circa 2400 anni ).

    Quando perderà la qualifica di Quasi-Satellite resterà comunque in ''Zona Venere'' passando per brevi periodi anche nei punti lagrangiani L5 , L3 , L4 in sequenza ).

    Rischio d'impatto:
    2002 VE68 è incluso nell'elenco del Minor Planet Center degli Asteroidi potenzialmente pericolosi ( PHA ) perché arriva relativamente frequentemente entro 0,05 UA della Terra. Si avvicina a quasi 0,04 UA , con una periodicità di 8 anni a causa della sua risonanza quasi 8:13 con la Terra.
    2002 VE68 è stato scoperto durante il passaggio ravvicinato dell'11 novembre 2002. Durante l'ultimo incontro ravvicinato del 7 novembre 2010, 2002 VE68 si avvicinò alla Terra entro 0,035 UA (13,6 distanze lunari), illuminandosi al di sotto del 15° magnitudine.
    Il suo ultimo sorvolo con la Terra è avvenuto il 4 novembre 2018 a 0,038 UA (5.700.000 km).
    ____________________________________________

    GLI ALTRI ASTEROIDI CO-ORBITALI SONO:

    (322756) 2001 CK32
    E' un asteroide sub-chilometrico e un oggetto NEAR-EARTH del gruppo Aten . Si tratta anche di un transitorio oggetto attualmente co-orbitale di Venere , e pure un Ermeosecate ed un Geosecante .
    Ha una magnitudine assoluta (H) di +19 mag, da cui ne deriva una dimensione di circa 800 metri.
    Orbita in 0,62 anni, spaziando da 0,44776848 UA fino alla distanza della terra 1,002762662 UA , con un'eccentricità di 0,3826145 , ed una inclinazione orbitale di 8,1302858° rispetto all'eclittica.
    Dati JPL : http://ssd.jpl.nasa.gov/sbdb.cgi?sstr=2322756 


    2012 XE133
    E' un asteroide , classificato come oggetto NEAR-EARTH del gruppo Aten che è anche un co-orbitale temporaneo di Venere .
    2012 XE133 è stato identificato come un co-orbitale di Venere seguendo un percorso di transizione tra i punti Lagrangiani di Venere L5 e L3 .
    2012 XE133 è stato osservato per la prima volta il 12 dicembre 2012 da J.A. Johnson che lavorava per Catalina Sky Survey .
    È un asteroide Aten e il suo semiasse-maggiore di 0,72 UA è molto simile a quello di Venere, ma la sua eccentricità è piuttosto grande (0,4332) e anche l'inclinazione di 6,7° è significativa. Con una magnitudine assoluta (H) di +23,4 mag, ha un diametro da circa 62 a 138 metri.
    2012 XE133 è stato incluso nell'elenco del Minor Planet Center di Asteroidi potenzialmente pericolosi ( PHA ) perché si trova periodicamente entro 0,05 UA della Terra.
    Si avvicinerà alla Terra a 0,0055 UA (e alla Luna a 0,0045 UA) il 30 dicembre 2028.
    Dati JPL : http://ssd.jpl.nasa.gov/sbdb.cgi?sstr=3620867 

    ______________________________________________________

    2013 ND15

    2013 ND15 è il primo, e per ora unico, asteroide troiano di Venere, orbita attorno al punto di Lagrange L4.

    Il corpo celeste è stato scoperto nel 2013 da N. Primak, A. Schultz, T. Goggia e K. Chambers nell'ambito del progetto Pan-STARRS. Si tratta di un asteroide Aten dotato di un semiasse maggiore (0,7235 UA) molto simile a quello di Venere ma con una eccentricità (0,6115) più alta ed un'inclinazione orbitale minore (4,794°). Con una magnitudine assoluta di 24,1, si stima che l'asteroide abbia un diametro compreso tra i 40 e 100 metri, assumendo un'albedo tra 0,04 e 0,20.

    2013 ND15 non è incluso nell'elenco del Minor Planet Center tra gli asteroidi potenzialmente pericolosi.
    Si avvicinò alla Terra a 0,077 UA il 21 giugno 2016.

    ( Grafico dell'orbita ).
    _______________________________________________________________
    _______________________________________________________________

    L'occultazione di Mercurio e Venere del 17 maggio 1737

    Osservata da John Bevis, presso l'osservatorio di greenwich:
    Il resoconto dettagliato di Bevis a Philosophical Transactions (1737-1738, 40°), l'annuario scientifico ufficiale della Royal Society di Londra, relativo all’occultazione di Mercurio da parte di Venere  consiste in un elenco commentato di sette osservazioni al telescopio dove vengono riportate le posizioni reciproche dei due pianeti per determinati momenti dei quali si specifica l’ora, i minuti primi e i minuti secondi . Le ore sono intese P.M., post meridiem, cioè nel pomeriggio a partire da mezzogiorno. Alcune delle osservazioni sono pertanto avvenute in pieno sole.

    L’occultazione è data per le ore 9 51’ 10’’, quando, dopo una breve scomparsa dei pianeti dietro ad una nuvola, Venere si presenta da solo all’oculare del telescopio: 
    ''Venus iterum clarissime effulget, Mercurius vero totus sub Venere latet.''



    Il grafico che accompagna la relazione, nella tavola, ricostruisce la situazione per le ore 9 43’ 04’’, l’ultima osservazione effettuata prima del momento dell’occultazione la cui visione viene negata dal sopraggiungere della sgradita nuvola, ''Deinde inimicae Nubes''.


    Bevis è l’unico uomo che abbia mai osservato una occultazione di pianeti, evento rarissimo come si può verificare dalla seguente tabella del Circolo Astrofili Talmassons:
    Tabella che ricostruisce le date di tutte le occultazioni reciproche dei pianeti per 7000 anni, dall'anno 1000 a.C. fino all'anno 6000 d.C.

    Insieme alla tavola di Bevis propongo la ricostruzione  del cielo visibile da Londra effettuata con il programma Perseus per le ore 21 43’ del giorno 28 maggio 1737 e, per la stessa ora,  quella della reciproca posizione di Venere e Mercurio ricostruita con il programma Guide 8.0 da Corrado Lamberti. Da notare che quest'ultima ricostruzione è quasi identica a quella disegnata da Bevis che riproduceva i due pianeti osservati magistralmente a soli 2° di altezza sopra l'orizzonte di Londra tra le ultime luci del crepuscolo.  

    ( Programma Perseus ).


    ( Programma Guide 8.0 ).

    La discrepanza tra le date di Perseus e quelle indicate da Bevis sono date dal fatto che l’astronomo britannico utilizza ancora il calendario secondo il riferimento giuliano, non considerando la riforma gregoriana, cattolica, avvenuta già dal 1582. 

    Bevis, l'anno successivo, invia a Philosophical Transactions (1739-1741, 41°) una ulteriore comunicazione con la quale corregge leggermente gli orari delle osservazioni confermando nel suo complesso la precedente relazione. 
    Nel nuovo titolo il termine occultatus viene sostituito con l'equivalente sublatus.

    Tratto dal post di FELICE STOPPA:
    LINK : http://www.atlascoelestis.com/Bevis%201737%20base.htm
    _______________________________________________________________
    _______________________________________________________________

    A cura di ANDREOTTI ROBERTO, leggi anche:

    Libro del Sistema Solare:
    https://andreottiroberto.blogspot.com/2018/12/libro-sul-sistema-solare-pianeti.html

    E gli approfondimenti, ancora più completi:

    IL SISTEMA SOLARE ELENCO POST di Andreotti Roberto - INSA.

    CAPITOLO su TERRA e LUNA:
    TERRA, LUNA, quasi-satelliti e co-orbitali.

    TUTTI I POST SU MARTE:
    https://marteinsa.blogspot.com/ 
    _______________________________________________________________

    1 commento:

    1. Decisamente lo definirei un post biblico, tanto è ricco ed accurato nelle descrizioni, nei contenuti, nelle foto ed infografiche. Complimenti per il lavoro enorme! (Commento in qualità di fruitore)

      RispondiElimina