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domenica 8 luglio 2018

FRANCESCO SPERONI INTERVISTA IL PROF. MARIO DI FIORINO, RIGUARDO AL DISEGNO DI LEGGE PER IL SUPERAMENTO DELLA LEGGE BASAGLIA.

(Prof. Mario Di Fiorino, psichiatra. Foto di Stefania Baldacci).

Intervista al prof. Mario Di Fiorino di Francesco Speroni


Il 13 maggio 1978 il Presidente della Repubblica Giovanni Leone firma la legge 180, nota come "legge Basaglia".

(Prof. Mario Di Fiorino e la Senatrice Raffaella Marin LEGA).
 
Presentata il dicembre precedente dallo psichiatra democristiano on. Bruno Orsini, l'iter fu sorprendentemente rapido: solo venti giorni di discussione parlamentare. Erano passati settantaquattro anni da quel lontano 1904 quando fu varata l'ultima legge che disciplinava la materia, cioè la legge 36, da molti definita "famigerata".
La nuova legge 180 conta solo 11 articoli e l'esito finale è la chiusura degli ospedali psichiatrici. È passata alla storia come "legge Basaglia" per via dello psichiatra veneziano Franco Basaglia il quale dedicò gran parte della sua vita prima alla trasformazione e poi alla chiusura dei manicomi. Per esperienza diretta - Basaglia fu direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia - egli definì i manicomi come «una discarica per i poveri e i devianti, un luogo di esclusione».

  A queste parole si aggiungono quelle della poetessa Alda Merini: «Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava canzoni sconce».

Questa legge non ha fatto particolari proseliti all'estero: almeno fino al 2017 l'Italia è stato l'unico paese al mondo ad aver intrapreso questa strada.

Oggi c'è una nuova iniziativa, una proposta di legge presentata dalla senatrice della Lega Raffaella Marin, psicologa di Grado (Gorizia), che si avvale della fondamentale collaborazione del professor Mario Di Fiorino, primario di psichiatria all'ospedale Versilia.

Questo disegno di legge interviene proprio sul tema dell'assistenza psichiatrica.

  Prof. Di Fiorino, vuole riaprire i manicomi?
  "Manicomio" è una parola inventata per demonizzare l'ospedale psichiatrico. In Inghilterra si parlava di Lunatic Asylum (Asilo per lunatici). Non chiamiamo più "Cottolengo" le strutture per disabili. Cerchiamo di avere più rispetto per i pazienti, che non devono essere allontanati dalle cure con immagini prese dai set cinematografici di lugubri ospedali, lobotomie e camicie di forza.
Lei mi chiede se vogliamo riaprire degli ospedali psichiatrici. Certo che sì.
 
OSPEDALE PSICHIATRICO AUSTRALIANO


Ritengo che nel ventaglio dei percorsi di cura sia necessario avere anche delle istituzioni ospedaliere psichiatriche - e non "case di civile abitazione" ma veri ospedali - come ci sono nei paesi progrediti, basti pensare al Nord America, all'Australia, alla Danimarca.

(OSPEDALE PSICHIATRICO
IN CALIFORNIA INTERNO)
___________________________


OSPEDALE PSICHIATRICO CALIFORNIA ESTERNO
E possono essere ospedali ben organizzati, con staff motivati, con grande spazio per psicoterapia e psicoeducazione, tecniche riabilitative e incontri con i familiari e le persone care. Sono riuscito a realizzare in Versilia la prima Comunità terapeutica per le Anoressiche della Toscana e l'ho fatto con la supervisione di Johan Vanderlinden, uno psicologo belga, mio amico, famoso in Europa per la terapia residenziale di questi disturbi. Cerchiamo di dare il meglio ai nostri pazienti.

  
(Sopra e sotto -PROGETTO di OSPEDALE PSICHIATRICO in DANIMARCA).



Com'è giunto a questa posizione?
Mi sono formato con il prof. Pietro Sarteschi e il prof. Giovanni Cassano, a Pisa, dove sono stato all'inizio della carriera borsista. 
Sono diventato primario piuttosto giovane, non avevo ancora compiuto 36 anni. 

(Prof. Mario Di Fiorino - Foto di Stefania Baldacci).

Negli anni '80 sono stato per un periodo al Cassel hospital di Londra, dove Tom Main ha coniato il termine Comunità Terapeutica, sono stato allievo di Isaac Marks, un gigante della Terapia Comportamentale. 
Ho insegnato come professore a contratto prima in Criminologia clinica a Modena e poi nelle scuole di specializzazione in Psichiatria a Brescia e a Pisa per circa 25 anni. 
Con Maria Luisa Figueira, Direttrice della Psichiatria di Lisbona, ho fondato un'associazione di scambi culturali tra Europa dell'Est e dell'Ovest, Bridging, attiva da più di 20 anni, che ha organizzato congressi  in Russia, Ucraina, Armenia, Georgia, Romania, Polonia, Lettonia, Estonia, Lituania e  Portogallo.

   Quando in Italia si parla di ospedali psichiatrici quasi tutti pensano a quanto descritto da Alda Merini.
 Alda Merini, che ha trascorso dodici anni in ospedale psichiatrico da ricoverata, dichiarò anche, in una intervista al Corriere della Sera (2003): «I malati di mente sono rimasti abbandonati a sé stessi, molti sono morti, si sono uccisi. Il matto viene soppresso, in questa società non è produttivo. Quasi quasi vorrei dire di riaprirli i manicomi. In fondo mi hanno curata, no?, almeno mi hanno accolta». E ride, «La verità è che Basaglia immaginava un amore tra pazzia e società, la non violenza verso il malato, ma la sua legge è stata negata, è rimasta incompiuta, perché ci volevano ospedali, ospedali veri e propri per curare le persone, altro che gli "operatori sociali": la mente umana è vasta come il mare, c'è bisogno di grandi medici, anche perché magari non si riconosce la violenza e si finisce per ritenere "pericoloso" chi è depresso per amore...». In realtà Basaglia l'ospedale non lo voleva proprio. Per lui l'istituzione psichiatrica avrebbe solo uno scopo di custodia.
Vorrei citare anche un'altra persona che è stata in ospedale psichiatrico da medico, Mario Tobino. Nel  pamphlet "Gli ultimi giorni di Magliano" (1982), che raccoglie elzeviri già apparsi nel Corriere della sera, si scaglia contro la legge 180.
«Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamavano i novatori, per inserirsi, sono già in galera, in prigione arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno li proteggerà, li consiglierà, li impedirà. Nessuno più li manterrà con amorevolezza e fermezza, li condurrà per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c'è, non esiste, deriva dalla società! Evviva!».
Tobino, nella sua polemica contro i "novatori", coglie l'aspetto senza dubbio più originale del pensiero di Franco Basaglia che ha connotato la legge di riforma psichiatrica: la negazione di un luogo per la follia. La radicalità della concezione di Basaglia emerge chiaramente dal confronto con la posizione espressa da Ronald D. Laing, uno psichiatra scozzese che aveva fondato una specie di comune, la Kingsley Hall di Londra, per pazienti gravi. Basaglia ci ha lasciato il resoconto di una sua discussione con Laing, avvenuta verso la fine del 1972, proprio su questo punto nodale. Scrive che Laing riproponeva «la costituzione di "asilo", che risponda - fuori da ogni burocrazia organizzativa e istituzionale - al bisogno di riparo, di protezione, di tutela di chi vive un'esperienza "diversa". Un luogo dove il diverso possa esprimersi senza limitazioni e dove si impari a convivere con esso».
Ma la conclusione di Basaglia appare venata di pessimismo: «Auguriamo a lui che il suo "asilo" riesca a non diventare un'istituzione».

A quarant'anni  esatti da quel 1978, cosa possiamo dire che ci fu di sbagliato nella legge 180?
Di sbagliato c'era l'idea di Basaglia che  i pazienti stessero male non per il grave disturbo da cui erano affetti, ma a causa delle istituzioni psichiatriche. Per cui sarebbe bastato distruggere l'istituzione e non ci sarebbero stati più malati cronici.
In realtà, dopo aver distrutto le istituzioni, si è visto che  le persone continuavano ad ammalarsi. Ma senza strutture ospedaliere attrezzate a curare per mesi i pazienti impegnativi, il peso della malattia è stato scaricato sulle famiglie e gli psichiatri hanno dovuto imparare cosa significa "medicina difensiva". Cercando di districarsi tra leggi non scritte (che impongono di non abbandonare il malato) e leggi dello stato e delle Regioni, per cui i pazienti più gravi vanno curati con le porte aperte. 
Oggi poi gli eredi di Basaglia hanno imparato da Orwell a usare la neolingua: parlano così  di "recovery" (guarigione) per  definire esiti di malattia, che sarebbe meno derisorio definire "condizioni di relativo compenso": Ma le parole hanno una loro capacità evocativa. Mi spiegate poi come si può convincere a continuare a curarsi una persona che abbiamo definita "guarita"! 

Di cosa parla il libro "Il bisogno di un luogo di cura" (La Vela, 2018), scritto a tre mani da lei, Raffaella Marin e Francesco Ungaretti?



  Il libro che  ho appena pubblicato con Raffaella Marin e Francesco Ungaretti, riprende gli argomenti che sostengono il disegno di legge. (EDIZIONI La Vela 2018).
In una sinossi compariamo i diversi modelli di trattamenti obbligatori in alcuni paesi europei (Regno Unito, Svizzera, Svezia, Germania e Francia) e in USA. Mostriamo come, trascorsa l'emergenza, vi sia sempre l'intervento di un Giudice a disporre i trattamenti obbligatori.
Spieghiamo perché ci sia bisogno di strutture ospedaliere psichiatriche.
       
Lei conoscerà bene che cosa erano i manicomi in Italia prima della loro chiusura. Parliamo di veri e propri luoghi dell'orrore. Si pensi anche alla lobotomia, una pratica che ancora nei primi anni '70 era diffusa...
  I vecchi manicomi, erano stati il frutto di una utopia. Nati nel secolo dei Lumi, avevano cercato di curare la malattia mentale grave con i rimedi del tempo. Non dimentichiamo che anche a Lucca, i primi pazienti dell'ospedale di Maggiano venivano dalla Torre Guinigi, dove erano stati  incarcerati.
Con l'avvento dei farmaci antipsicotici e antidepressivi negli anni '50, la psichiatria ha potuto disporre di strumenti efficaci per la cura delle malattie mentali.
L'attacco alle istituzioni è venuto dalla cultura del '68. Pensiamo ad un film come "Qualcuno volò nel nido del cuculo" tratto dal romanzo di Ken Kesey il quale - secondo Albert Hofmann, il ricercatore cui si deve la prima descrizione degli effetti dell'LSD - scrisse il romanzo sotto gli effetti di tale sostanza.
La de-istituzionalizzazione (la riduzione dei posti letto dei grandi ospedali psichiatrici) ha portato all'abbandono di malati cronici, con un aumento degli homeless. In tutti gli altri paesi del mondo sono però rimaste attive strutture ospedaliere psichiatriche per la cura dei pazienti affetti da disturbi psicotici, senza consapevolezza di malattia e con scarsa aderenza alla cura. In Italia tale possibilità di cura è negata per legge.
Una ricerca dell'Istituto Superiore di Sanità, intitolata Progress, ha rilevato che al 31 Maggio 2000 c'erano 1.370 strutture residenziali (NHRFs) con 17.138 letti. Una spesa enorme a fronte di una scarsa efficacia. Molte sono "case di civile abitazione", con personale in turni talora con solo uno o due operatori per la notte, luoghi non adatti per gestire condizioni problematiche di malattia. 
La lobotomia è stato un intervento neurochirurgico introdotto dal portoghese Moniz nel 1935, consistente nell'interruzione delle fibre nervose che collegano il talamo col cervello frontale. In Psichiatria è stata abbandonata negli anni Settanta. Oggi è  ancora utilizzata in Neurologia per la cura di gravi e rarissime forme di epilessia resistente ai farmaci. 
Ma nella sostanza sopravvive solo nella propaganda antipsichiatrica, da Scientology ai basagliani.

Quanto è progredita la psichiatria, specie sotto il profilo farmacologico, da quel 1978 a oggi?
Ci sono stati dei progressi negli antipsicotici, con lo sviluppo degli atipici e nuove formulazioni ad azione prolungata. Comunque i farmaci aiutano ma hanno bisogno di tempo. E poi purtroppo ci sono quadri clinici che non rispondono bene alle terapie. Senza considerare alle conseguenze dell'impiego di droghe.

  Oggi in questi casi le comunità non riescono a dare una risposta efficace. Il paziente non collaborante non accetta l'inserimento in struttura, oppure l'abbandona poco dopo. Si attende spesso l'intervento del giudice per inserire i pazienti non collaboranti. Si finisce così per avere  l'ingresso dei pazienti nel circuito giudiziario.
Con il disegno di legge, che ha come prima firmataria la senatrice Raffaella Marin, psicologa, impegnata da anni a Trieste in IDEA (Istituto per la Depressione E Ansia), l'Italia uniformerebbe la sua normativa a quella dei paesi del Nord Europa e del Nord America dove, trascorso un primo periodo legato alle condizioni di emergenza, la proroga della limitazione delle libertà (con l'obbligo di ricovero e l'obbligo di sottoporsi a terapie) è ordinata o convalidata dal giudice. Le Regioni dovranno, entro 6 mesi dalla promulgazione, individuare delle strutture ospedaliere psichiatriche per la degenza di 40- 50 pazienti.
In questo modo anche l'Italia potrà tornare a disporre di strutture ospedaliere per degenze di alcuni mesi, necessarie nelle situazioni descritte.

In pratica cosa cambierà una volta che la legge Marin entrerà in vigore?
Permetterà di trattenere più a lungo i pazienti "non compliant" (con scarsa aderenza alle cure) in strutture adeguate, dotate di verde, di alberi. Provvedimenti limitativi della libertà non possono che avvenire in strutture pubbliche.
Le attuali residenze, protette o assistite, private o pubbliche, pur avendo raggiunto un numero di posti letto superiore a quello previsto, selezionano i pazienti e non riescono spesso a trattenere i malati non collaborativi.
Il diritto del paziente alla cura appropriata e l'obbligo di non trascurare ogni strumento terapeutico di provata efficacia devono farci superare i vecchi pregiudizi nati nei confronti dei vecchi ospedali, in epoche in cui non si disponeva di cure efficaci.
La riforma psichiatrica è stata preceduta dalla critica dell'emarginazione e della custodia; oggi nel dibattito si torna a parlare della pericolosità, nel senso dell'esigenza di protezione sia del paziente che della comunità.

Cosa ne pensa dell'elettroshock, cioè la terapia elettroconvulsivante? Tra l'altro inventata in Italia negli anni '30 dagli psichiatri Ugo Cerletti e Lucio Bini.
La terapia elettroconvulsivante ha subìto in Italia un grave ostracismo per le campagne antipsichiatriche che la demonizzano. È una terapia come un'altra, riservata a forme gravi e resistenti di depressione, quando diventa difficile il ricorso ad altre terapie e vi è un elevato rischio di suicidio.
Ricordo che quando ho visitato una decina di anni fa l'Ospedale St. Elizabeths di Washington, D.C. appresi che la terapia elettroconvulsivante era praticata pochissimo, ma - mi fu spiegato - solo a causa del contenimento della spesa. Richiede la presenza di un anestesista, prima dell'applicazione e poi per l'osservazione.

Oltre agli ospedali psichiatrici, ritiene che vadano riaperti anche i cosiddetti manicomi criminali?
Oggi la scarsa considerazione medica dei problemi comportamentali, soprattutto nei giovani psicotici o con gravi disturbi di personalità, quando gli aspetti psicopatologici si intrecciano con le conseguenze dell'uso di sostanze stupefacenti, determina l'ingresso di persone affette da disturbi mentali nei percorsi giudiziari. La possibilità di curare i pazienti più gravi ridurrà il ricorso a strutture per i pazienti autori di reato.
La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, con la nascita delle Residenze per le Misure di Sicurezza detentive (REMS), non ha rappresentato che una operazione trasformistica, senza una corretta programmazione dei posti necessari all'applicazione delle misure di sicurezza.
Anche per i pazienti autori di reato, è sbagliato programmare piccole strutture per 20-25 persone. È evidente che c'è bisogno di programmi differenziati. Pensiamo ai pazienti "sex offenders" che sono passati all'atto. Ci vogliono centri con personale specializzato, altrimenti si dimettono persone affette da gravi patologie senza che siano state davvero curate. Questi soggetti inevitabilmente commenteranno nuovi reati.

   Oggi esiste la possibilità di fare un trattamento non volontario ad un paziente: è il TSO, che appunto significa Trattamento Sanitario Obbligatorio. Non è sufficiente?
Proprio per la visione di Basaglia, il TSO non richiede la diagnosi di uno specifico disturbo mentale, essendo sufficienti "alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti trattamenti terapeutici".
La discrezionalità è dilatata dal mancato riferimento alla concezione medica di disturbo mentale ed al criterio di "previsione della pericolosità".
Vi è un ragionamento tautologico, dato che tra le condizioni per procedere al trattamento obbligatorio è prevista una valutazione medica sulla necessità del trattamento stesso in condizioni di degenza ospedaliera, insieme alla considerazione che non sia possibile fare altrimenti.
Il TSO deve coinvolgere maggiormente la magistratura. Nella prassi, la disposizione del TSO, che interviene a limitare la libertà di un individuo, risulta circoscritta all'operato del medico, dalla proposta, alla convalida e proroga del provvedimento senza, di fatto, interventi di controllo da parte dell'autorità giudiziaria e amministrativa, come si evince dall'esame della giurisprudenza di questi ultimi quarant'anni.
A riguardo, la Raccomandazione 1235 del 1994 del Parlamento Europeo sottolinea "la necessità che la decisione del ricovero sia assunta da un giudice".
Il disegno di legge Marin è innovativo riguardo al TSO:
1) aumenta le garanzie per i pazienti: le limitazioni della libertà e l'obbligo della cura, nell'emergenza potranno avvenire in presenza della diagnosi di uno scompenso in un disturbo mentale diagnosticato e in una situazione a rischio per l'aggressività auto od eterodiretta. Altrimenti non si potrà avere un ricovero obbligatorio.
Poi superata l'emergenza, solo il Giudice Tutelare potrà prolungare il ricovero obbligatorio all'interno di strutture ospedaliere, che permettano degenze di alcuni mesi. 
2) offrirà la possibilità di luoghi per curare, per rendere effettivo il diritto alla cura.
Si avverte l'esigenza di un assetto normativo a tutela dei diritti del paziente, ma anche, secondariamente, del medico, sia per i riflessi nella relazione terapeutica, che per le implicazioni di responsabilità professionale.


Dott. Di Fiorino, questa è una battaglia scientifica o culturale?
La nostra è una battaglia civile, medica e culturale.
Il dovere di proteggere è compito dello psichiatra come oggi testimoniato dalla sensibilità della magistratura giudicante  (pensiamo alla rivoluzione che ha portato negli Stati Uniti la sentenza della Corte Suprema della California per il caso Tarasoff) e del potere legislativo. In questo contesto devono  iscriversi i diritti del malato, sul versante sia del rispetto della dignità della sua persona, che del suo diritto alla cura e alla protezione.
Osservando i corsi e i ricorsi della nostra storia recente vediamo che il pendolo, dopo aver compiuto la sua oscillazione verso il polo della difesa dei diritti di libertà  di scelta e di autonomia,  torna a riconsiderare, in chiave beneficiale, il polo del diritto all'accoglienza, alla protezione e al contenimento.
Vanno contemperati i differenti diritti in gioco, il diritto alla libertà di cura ma ma anche alla protezione.

   Si aspetta delle reazioni contrarie?
Certo, la legge Basaglia non sarebbe immaginabile senza il '68. Ci sono carriere che si sono costruite con l'adesione al pensiero dominante. E poi ci sono interessi economici: si pensi al mondo delle Cooperative. Nel 2000 avevamo 17.600 pazienti inseriti nelle piccole comunità, con un grande numero di lavoratori e rette giornaliere da 150 a 200 euro a persona: si fa presto a fare due conti. Ma non ci sarà bisogno nemmeno di disboscare troppo questo mondo. È sufficiente che il Governo affermi il principio che anche l'Italia  deve dotarsi, come ogni altro paese nel mondo, di strutture pubbliche per assolvere al dovere di cura dei pazienti più problematici.
Certo quando si ripropongono delle strutture ospedaliere in Psichiatria è normale che vengano riesumati tutti i luoghi comuni come la camicia di forza, l'elettroshock o la lobotomia. Ricordiamo che i primi attacchi  all'ospedale psichiatrico sono stati di matrice settaria. 
Il Ritiro di York, la prima istituzione per malati mentali a porte aperte (open door) e senza contenzione (no restraint) venne inaugurata a York nel 1796, dopo una raccolta di fondi promossa dal leader dei Quaccheri, William Tuke. La controversia e la diffidenza nei confronti dei nascenti ospedali psichiatrici si era acuìta a seguito della morte di una paziente quacchera. Del resto doveva esistere un pregiudizio di fondo, considerando che anche il Fondatore del Quaccheri, George Fox, era stato ricoverato in un ospedale psichiatrico.
Oggi a ripetere i logori slogan dei Quaccheri sono rimasti i basagliani.
 

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