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domenica 1 marzo 2015

CHE FINE FARANNO I RIFIUTI PERICOLOSI CON LA NUOVA NORMATIVA ???

Classificazione dei rifiuti, che fine fanno gli pneumatici

Venti righe in un decreto e milioni di tonnellate di rifiuti diventano «pericolosi». E ora chi se li prende? Entra in vigore oggi la nuova norma sulla classificazione dei rifiuti 18 febbraio 2015 di Alessandro Farulli Il procuratore aggiunto a Venezia, Carlo Nordio, in un’intervista rilasciata a Italia Oggi, dice senza mezzi termini a proposito della corruzione che «la questione è il guazzabuglio normativo attraverso il quale il pubblico ufficiale ha una discrezionalità assoluta. Ecco perché ci vogliono poche leggi e procedimenti semplificati: la confusione normativa rende l’uomo ladro». Difficile non essere d’accordo con Nordio, tuttavia se la questione si allarga alla gestione dei rifiuti emerge con evidenza non solo l’assurdo di una quantità – che non ha paragoni nel mondo – di produzione di leggi, ma che rischia di rendere così “ladri” anche coloro che non vorrebbero, perché non hanno certezza del dovere. L’esempio della nuova classificazione dei rifiuti pericolosi e non, entrata in vigore oggi, è lampante. Con una ventina di righe infilate quali modifiche «al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152». Dopo l’articolo 241 è inserito il seguente b-bis) all’allegato D alla parte IV, dove in premessa viene aggiunto alla Classificazione dei rifiuti al punto 4. «Se un rifiuto è classificato con codici CER speculari – si legge nella Gazzetta ufficiale – uno pericoloso ed uno non pericoloso, per stabilire se il rifiuto è pericoloso o non pericoloso debbono essere determinate le proprietà di pericolo che esso possiede. Le indagini da svolgere per determinare le proprietà di pericolo che un rifiuto possiede sono le seguenti:

a) individuare i composti presenti nel rifiuto attraverso: la scheda informativa del produttore; la conoscenza del processo chimico; il campionamento e l’analisi del rifiuto; b) determinare i pericoli connessi a tali composti attraverso: la normativa europea sulla etichettatura delle sostanze e dei preparati pericolosi; le fonti informative europee ed internazionali; la scheda di sicurezza dei prodotti da cui deriva il rifiuto; c) stabilire se le concentrazioni dei composti contenuti comportino che il rifiuto presenti delle caratteristiche di pericolo mediante comparazione delle concentrazioni rilevate all’analisi chimica con il limite soglia per le frasi di rischio specifiche dei componenti, ovvero effettuazione dei test per verificare se il rifiuto ha determinate proprietà di pericolo.

Ed eccoci al nodo: «5. Se i componenti di un rifiuto sono rilevati dalle analisi chimiche solo in modo aspecifico, e non sono perciò noti i composti specifici che lo costituiscono, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento i composti peggiori, in applicazione del principio di precauzione. Quando le sostanze presenti in un rifiuto non sono note o non sono determinate con le modalità stabilite nei commi precedenti, ovvero le caratteristiche di pericolo non possono essere determinate, il rifiuto si classifica come pericoloso. La classificazione in ogni caso avviene prima che il rifiuto sia allontanato dal luogo di produzione. Ecco, secondo quanto riportato oggi da Paola Ficco sul Sole24Ore, questa nuova classificazione farebbe diventare di colpo rifiuti pericolosi il 66% – se fatto riferimento al 2011 – dei rifiuti speciali, qualcosa come 85 milioni di tonnellate. Qual è il problema? Che i rifiuti pericolosi hanno tutto un altro iter per la loro gestione – come è ovvio – rispetto ai non pericolosi. A partire dal fatto che devono essere trattati e smaltiti in apposite discariche per “pericolosi” di cui il Paese è assai deficitario (in Toscana a esempio non si sa dove mettere un grammo di rifiuti pericolosi). Perché tutto questo? C’è una ragione ambientale? Non pare proprio, piuttosto una norma peraltro incompatibile con quelle Ue, ma che non si è riuscita a fermare. Se dunque troppe leggi fanno l’uomo ladro, come dice Nordio, il miglior gestore di rifiuti come deve comportarsi per non finire nell’elenco degli ecomafiosi quando gli cambiano una legge quasi notte tempo che ribalta “85 milioni di tonnellate di rifiuti”?

Pubblicato il primo rapporto del Comitato di gestione degli Pfu Che fine fanno in Italia gli pneumatici fuori uso Il 100% di quelli raccolti viene destinato a recupero di materia. Che non sempre viene poi ricomprata 17 febbraio 2015 di Luca Aterini Il primo report sulle attività del Comitato di gestione degli pneumatici fuori uso (Pfu), presentato oggi, porta per una volta in dote alcuni numeri che inducono a un moderato ottimismo. Nell’anno appena trascorso sono state 19.453 le tonnellate di Pfu raccolte in Italia (+15,9% rispetto al 2013), smontati da veicoli giunti a fine vita: in totale le operazioni di ritiro, effettuate nei 1.365 autodemolitori dai 29 operatori abilitati, sono state 3.231 (+19%). Una crescita importante che, secondo il Comitato previsto dal ministero dell’Ambiente con decreto ministeriale 82/2011 (lo stesso che a oggi regolamenta la gestione degli pneumatici fuori uso in Italia), dimostra «le sempre maggiori capillarità ed efficienza del servizio garantito dai vari soggetti della filiera su tutto il territorio nazionale». Sembra così si stiano allontanando a grandi passi i tempi di Copertone selvaggio, i dossier elaborati in tandem da Legambiente e Ecopneus per indagare sulla destinazione dei pneumatici fuori uso (Pfu): solo nel 2010 erano 100mila le tonnellate disperse nell’ambiente a detrimento della salute dei cittadini – i roghi di pneumatici sono dopotutto uno dei primi simboli della Terra dei Fuochi – e dell’imprenditoria sana di settore. «Ogni anno spariscono nel nulla – annotavano allora gli ambientalisti – circa 1/4 degli pneumatici immessi in commercio nello stesso arco di tempo». Anche se rimane molto da fare, come dimostrano i dati messi in fila oggi dal Comitato di gestione degli pneumatici fuori uso, dal 2010 a oggi sono stati conseguiti importanti progressi nel settore, e questo in gran parte per merito non di inasprimenti penali (sempre invocato, anche a ragione, quando si parla d’ambiente), ma grazie a una normativa chiara e al costruttivo coinvolgimento di tutti gli attori che ruotano attorno alla filiera degli pneumatici: la associazioni dei produttori-importatori-rivenditori dei veicoli, motoveicoli e macchine movimento terra, quelle dei produttori-importatori degli pneumatici, le associazioni dei demolitori di veicoli, il Consiglio nazionale dei consumatori infine l’Automobile club d’Italia. Il tutto con la regia del ministero dell’Ambiente. «Il corretto recupero riduce di fatto a zero la possibilità di smaltimenti illegali – rimarca infatti il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti – che negli anni passati hanno disseminato il nostro paese di discariche abusive di pneumatici. Questo dimostra come attraverso i corretti stimoli, anche normativi, la green economy italiana sia capace di costruire sistemi complessi e capillari, riunendo operatori privati, strutture pubbliche e rappresentanti di cittadini e consumatori e garantendo all’intero Paese un’ulteriore passo avanti verso la sostenibilità» Un modus operandi che, nel caso degli pneumatici usati, ha portato a una gestione bilanciata tra obiettivi economici e ambientali. «Oggi nel nostro Paese per ogni pneumatico che viene immesso su strada su un veicolo nuovo ne viene recuperato uno giunto a fine vita», sottolinea Galletti, grazie anche al versamento di un contributo ambientale – attualmente pari a 3,95 euro in media, per ogni auto nuova – versato dagli acquirenti. Con scelta lungimirante il Comitato ha deciso di «avviare il 100% degli pneumatici fuori uso al recupero di materia, eliminando del tutto opzioni meno sostenibili dal punto di vista ambientale come l’utilizzo come combustibile per cementifici o la termovalorizzazione». Un capillare sistema informatico è quindi in grado di tracciare l’intera filiera, che consente di produrre materie prime seconde ed evitare così il consumo di materie prime non rinnovabili (nonché l’immissione di gas serra in atmosfera pari a 39.000 tonnellate di CO2 equivalenti nel 2014), il principale componente riciclato dagli Pfu «è la gomma – dettagliano dal Comitato –, pari a circa il 70% in peso. Il 20% è invece rappresentato da metalli ferrosi, principalmente acciaio e il restante 10% da fibre tessili». Arrivati a questo punto, il cerchio però non si chiude completamente, minando il resto della catena: «In Italia il mercato delle materie prime seconde derivanti da Pfu stenta ancora a decollare – nota in fondo al report il Comitato – a causa di un’insufficiente capacità produttiva di manufatti e soprattutto per lo scarso impiego del polverino negli asfalti. All’estero quest’ultimo impiego è sempre più diffuso grazie anche a politiche di “green procurement” più efficaci di quella italiana». Quella degli pneumatici fuori uso potrebbe dunque essere la storia di un successo a tutto tondo, non fosse per lo strabismo tipicamente italiano che, nella gestione dei rifiuti prima e nel loro riciclo poi, non si sa perché finisce sempre per non occuparsi di dove i materiali riciclati andranno a finire: se non è nel mercato, con relativa e giusta valorizzazione economica, il castello di carte costruito a monte non potrà che rimanere una cattedrale nel deserto.

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