UNA IMPORTANTE TESTIMONIANZA DELLA VITA IN GARFAGNANA NEGLI ANNI
CHE VANNO TRA IL 1521 ED IL 1524.
Il governo dell’Ariosto
Le lettere scritte dall’Ariosto nel triennio durante il quale fu commissario estense della Garfagnana, con le vicende, anche minute, che vi vengono descritte, con i personaggi, positivi e negativi che vi compaiono, ci offre la possibilità di formarci un’immagine anche di quella che era la quotidianità del vivere in queste zone nel secondo decennio del 1500. Ciò giustifica, a nostro parere, lo spazio che gli dedichiamo e che può apparire sproporzionato alla durata – solo tre anni – del periodo di riferimento.
L’Ariosto, dunque, approdò in Garfagnana piuttosto di malavoglia il 20 febbraio 1522, in una Garfagnana appena recuperata dai duchi di Ferrara. Egli lasciava con dispiacere la sua Ferrara ed era preoccupato per le condizioni della terra che, in nome del duca, andava a governare. Si trattava, infatti, di una terra che veniva descritta come terra di banditi e di violenza, dove il potere centrale era percepito come cosa lontana e, tutto sommato, incapace di imporre una vera legalità, dove vivevano personaggi abbastanza influenti nella zona, che erano sostanzialmente fedeli al Duca ma, contemporaneamente, tenevano commercio con furfanti di ogni risma. Insomma una terra non facile.
E, infatti, dalle molte lettere che l'Ariosto scrisse (se ne conoscono 156 scritte in quel periodo ) al duca, agli Anziani di Lucca, agli Otto di Pratica di Firenze, emerge una situazione della zona quasi disperata, che creava grandissime angustie al nuovo commissario.
Bisogna anzitutto dire che la Garfagnana estense non comprendeva tutta l'Alta valle del Serchio, conosciuta allora e ancor oggi come "Garfagnana". La zona del barghigiano (Barga e le sue frazioni), infatti, apparteneva a Firenze, Minucciano e le sue frazioni appartenevano a Lucca, così come Castiglione e le sue frazioni. Tale situazione veniva a determinare dei confini molto frastagliati, che rendevano più frequenti le liti fra confinanti, gli sconfinamenti dei delinquenti, che si sottraevano, così, facilmente, alla giustizia dello stato dove avevano commesso il crimine e altre e varie problematiche. A questo aggiungasi che a nord, in Lunigiana, veniva a trovarsi di nuovo a confine con i fiorentini e così pure a ovest, sul crinale delle apuane, ove confinava col territorio di Pietrasanta, pure fiorentino. Le controversie più frequenti e più noiose erano quelle che si verificavano a sud, fra gli estensi di Vallico e i lucchesi di Motrone. Gello, Coreglia…, a est fra i lucchesi di Castiglione e gli estensi di Pieve Fosciana, Massa Sassorosso, ecc., a est fra gli estensi di Vagli e i fiorentini di Cappella in quel di Pietrasanta.
Più di una volta l'Ariosto, scrivendo al duca, arriva a dire che in Garfagnana non comanda né il duca, né i lucchesi né i fiorentini, bensì i ribaldi che la infestano impunemente.
Quale la causa di tale situazione ? Bisognerà anzitutto dire che anche in Garfagnana prosperavano, all'epoca, due fazioni : la parte francese, cui apparteneva anche lo stesso duca Alfonso I, che era ostile al papato e favorevole ai francesi, e la parte italiana, favorevole alla politica papale-medicea. In realtà, però, non interessavano poi così tanto le questioni politiche in senso proprio e i garfagnini nascondevano interessi personali e locali dietro la loro appartenenza ad una delle due fazioni. Ed erano questi interessi che favorivano o, addirittura, provocavano la diffusa illegalità che sconfinava spesso nella delinquenza comune. Emergono, dalle lettere, i nomi dei personaggi inquietanti che commettevano continue prepotenze e "assassinamenti" (l'Ariosto chiama così i danneggiamenti che venivano inflitti ai poveri cittadini con ruberie, ferimenti, imposizione di taglie, ecc.) Essi sono: - I figli del Peregrin (Pellegrino) del Sillico, in primo luogo il Moro, poi Giugliano (che abita a Ceserana in casa della moglie, che è sorella della moglie del Moro), Baldone - Quelli del Costa, provenienti dalla zona di Ponteccio, Battistino Magnano, Bernardello, Bertagnetto, Ginese o Zenese, Filippo Pachione, Pelegrinetto, il Frate, Pierlenzo, Ulivo e Nicolao Madalena - Quelli di Sommocolonia nel barghigiano, che erano spesso in combutta coi delinquenti nostrani: Togno di Nanni del Calzolaro, Donatello, Bogietto detto Cornacchia - Il Margutte di Camporeggiano. Ci sono poi le figure ambigue di alcuni capi-fazione protettori dei delinquenti e, spesso, delinquenti essi stessi, come Bastiano Coiaio, di Trassilico , Pierino Magnano, di Castelnuovo ma che viveva a Trassilico ed era cognato del figlio di Bastiano (avevano sposato due sorelle. La terza sorella era sposata a un tale Tomaso Micotto di Camporeggiano che, sorretto dai cognati, era stato eletto podestà di Trassilico, mal digerito, come vedremo, dall'Ariosto e anche dal duca.) Sono tutti di parte italiana e, quindi, in teoria, contrari al duca. In realtà saranno sempre fedeli agli Este e, al bisogno, non esiteranno a difenderli con decisione. Sono passati pochi giorni dal suo insediamento che l’Ariosto già deve occuparsi di un fatto increscioso: “uno Battistino forastiero, ma che abitava qui”, quindi un suddito estense, ha ferito un barghigiano. E allora l’Ariosto scrive al Podestà di Barga ( è la sua prima lettera dalla Garfagnana, del 2 marzo 1522) assicurandolo che se potrà avere fra le mani il colpevole lo punirà in modo che l’offeso ne rimanga soddisfatto. E auspica che si possa fare in modo che fra i sudditi estensi e i sudditi fiorentini di Barga regni la pace e la tranquillità. La seconda lettera, del 22 marzo, è indirizzata agli Anziani della Repubblica di Lucca. Un tale Belgrado da Valico aveva partecipato a una rissa in quel del Borgo e aveva sottratto uno “spedo e zannettone” (lo spiedo il giannettone erano armi) al Vicario del luogo. E l’Ariosto, sempre preoccupato di mantenere pace e buoni rapporti con gli stati confinanti, costringe il Belgrado a recarsi a Borgo per restituire le cose sottratte e rimettersi alla giustizia lucchese. E’ lui stesso il latore della lettera. E poco dopo (8 aprile) poiché uomini del Sillico estense ferirono uomini di Castiglione lucchese scriverà ancora agli Anziani di Lucca assicurando che “ne farò ugni rigorosa demonstrazione di iustizia”. Ed eccoci alla prima grossa “grana” interna. In una lunga lettera al Duca di Ferrara del 19 aprile si tratta il problema di quel Tomaso Micotto di cui sopra. Tomaso Micotto era di Camporgiano, figlio di ser Giovanni un notaio, della fazione italiana, appartenente, evidentemente, alla famiglia Micotti, ancora esistente a Camporgiano e che già all’epoca doveva essere una famiglia notevole. Egli era stato eletto in modo forse non del tutto regolare, sospinto dalla parte italiana fortemente rappresentata dai suoi cognati e, soprattutto da Bastiano Coiaio, grosso capofazione e padre di uno dei suoi cognati. Gli abitanti della vicaria di Trassilico, come in altro paragrafo s’è detto, potevano eleggere il loro Podestà. Tale elezione, però, doveva essere approvata dal Duca. In questo caso pare che il Duca volesse non approvarla e cacciare il Micotto. L’Ariosto, cui il Duca aveva chiesto consiglio, è in imbarazzo. Dice che se ne chiede alla parte italiana non gliene diranno che bene mentre se ne chiede alla parte francese gliene diranno tutto il male possibile. A lui, per quel che può vedere, gli sembra “assai tenuto omo da bene”. E comunque, ormai che è stato eletto e ha esercitato la sua funzione, il rimuoverlo sarebbe motivo di grave scorno e potrebbe suscitare gravi reazioni se al suo posto fosse messo un altro del luogo. Così consiglia il Duca di convincere gli uomini di Trassilico, che stanno andando da lui, ad accettare che la funzione giurisdizionale sia svolta, anche per Trassilico, dal Capitano di Ragione di Castelnuovo. E siccome i Capitani di Ragione li nominava il Duca, egli avrebbe potuto scegliere “un dottore di qualche sufficenzia”. E aggiunge che i Podestà eletti sanno “a pena leggere”, sono inevitabilmente parziali e la loro elezione è determinata da “dui o tre villani che governano quel commune” e che spesso vendono la loro “podestaria” per un paio di calze o per un paio di fiorini. Questi i consigli dell’Ariosto probabilmente seguiti dal Duca. Ma della cosa si parlerà ancora. In una nuova lettera del 25 novembre, infatti, ecco che l’Ariosto aggiorna il Duca sulla situazione. Come richiesto dal Duca stesso, egli ha fatto venire gli uomini di Trassilico per comunicar loro che il Duca Alfonso non vuole che il Micotto continui a reggere la carica di Podestà. Ma gli uomini pregano che non sia fatta tale ingiuria anche perché il Micotto è “di buon parentado in questi paesi”. E l’Ariosto cerca di rendere la cosa accettabile proponendo loro di eleggere un Podestà che regga l’ufficio finchè il Micotto, che andrà a Ferrara, non ritorni “o rifermato o in tutto escluso”. E gli uomini di Trassilico accettano ed eleggono messer Achille Granduccio, il solo dottore che si trova in Garfagnana, che fu “Iudice de’ Maleficii a Ferrara”. E quando ci sarà la nuova elezione, magari a marzo quando scade l’anno del mandato del Micotto, sarebbe una fortuna se eleggessero di nuovo il Granduccio. Comunque anche se eleggeranno qualcun altro l’Ariosto doverosamente riferirà. E’ probabile che il Micotto, che doveva essere un furbacchione, abbia convinto il Duca a conservargli la carica. Certo è che nel gennaio del 1524 (lettera del 23.1.1524) il Micotto non ha finito di angustiare il povero Lodovico. Evidentemente costui continua ad essere eletto e il Duca non trova il verso di levarlo di torno. Ora l’Ariosto si rende ben conto di che razza di birbante sia questo Podestà: egli “tiranicamente e contra la volontà de li tre quarti di quella Vicaria occupa quello officio”. Colui che era andato dal Duca a perorare la causa del Micotto, sedicente interprete della volontà di tutta la Vicaria, in realtà “era stato mandato da alcuni pochi che sono con il lor podestade in liga a rubare e a scorticare il resto della Vicaria”. Sembra di capire che il Duca, prestando fede a quel tale, ha confermato il Micotto nel suo ufficio e l’Ariosto si augura di non essere più in Garfagnana quando sarà tempo di nuova elezione del Podestà perché le cose non cambieranno finchè si tollererà che l’elezione venga fatta dai sindaci che, a loro volta, sono stati eletti su pressione della “cricca” che, di fatto, ha in mano la Vicaria. E auspica una elezione diversa, perché “se un omo per casa avesse a dare il suo parere a ballotte, nessuno potrà essere ingannato”. Sarebbe, cioè, una elezione certamente più democratica e, allora, difficilmente il Micotto riuscirebbe a farsi eleggere. Queste cose l’Ariosto le aveva scritte al Duca ma il Duca non le aveva mai ricevute perché la lettera era stata affidata a uno di Cicerana che non l’aveva mai fatta giungere. Ed è facile da capire. Cicerana, cioè Ceserana, era tiranneggiata dai furfanti del Sillico, il Moro e i fratelli, protetti dal Coiaio per cui è molto verosimile che la lettera, come dice l’Ariosto, “fu aperta e non lasciata andar più avanti”. Sembra, però, che anche il duca ora si renda conto che le cose stanno come dice il suo
commissario, perché in una lettera dell’8 febbraio 1524 egli esprime la sua soddisfazione
per quel che il Duca ha deciso che farà “quando sarà tempo di confirmare o di eleggere il
nuovo podestà di Trassilico” . Evidentemente il Duca ha comunicato che non confermerà
più il Micotto. Anche se, poi, dall’elenco dei Podestà di Trassilico si può vedere che, dopo
il Micotto (che è detto, fra l’altro, di San Romano anziché di Camporgiano e non si capisce
perché) solo il 29 giugno del 1927 viene nominato un nuovo podestà nella persona di
Giusti Giovanni Leonardo di Vologno. Il che, però, non significa necessariamente che il
Micotto sia rimasto in carica fino a quella data. Può darsi ci sia stato un interregno
durante il quale la funzione giurisdizionale sia stata affidata al Capitano di Ragione di
Castelnuovo come altra volta accaduto. Quel che è certo è che l’Ariosto nelle sue lettere
non ne parla più.
Anche perché molti altri erano i problemi cui badare. Magari piccoli come può essere
quello di intercedere a favore di qualche suddito estense, anche modesto, che fosse
rimasto inguaiato o presso i lucchesi o presso i fiorentini. Era questa per l’Ariosto una
attività quasi quotidiana, che lo impegnava molto, perché riteneva suo primario dovere
proteggere i sudditi del suo Duca.
In una lettera del 21 maggio 1522 indirizzata agli Otto di pratica della Repubblica
Fiorentina, ad esempio, cerca di giustificare sette garfagnini che erano stati assoldati dai
fiorentini tramite un tale Bartolomeo da Barga il quale li accusa di essersene fuggiti con
la paga da Buonconvento. Ma essi dicono di aver ricevuto solo un acconto, col patto che
avrebbero avuto la paga intera a Buonconvento. Ma, dopo essere stati fino a Siena e aver
fatto il loro dovere di soldati, tornati a Buonconvento nessuno li aveva pagati e allora,
dopo 14 giorni, avevano ritenuto che “il patto era rotto” e se ne erano tornati a casa.
Ma anche a questioni più minute come far restituire l’asino a un poveretto che era
andato a comperare castagne a Castiglione senza sapere che era vietato portare generi
alimentari fuori dal comune, per cui gli avevano sequestrato e le castagne e l’asino,
l’Ariosto non mancava di dedicare la sua attenzione.
La cosa che lo turbava di più, però, era il proliferare della delinquenza. La presenza nella provincia di questi “assassini” è, come ho detto, fonte di continue preoccupazioni per l’Ariosto e, soprattutto, fonte di un senso di impotenza debilitante. Camporgiano, spesso chiamato dall’Ariosto Camporeggiano era capoluogo di una vicaria che comprendeva tutta l’alta Garfagnana e, quindi, anche Ponteccio che era una delle “terre nove”, cioè di quelle terre che si erano date agli estensi più recentemente, era molto frequentato da questi delinquenti che qui si sentivano sicuri e protetti. Uno di questi era il Frate, amico e complice del Margutte, altro delinquente di Camporeggiano. In una lettera al Duca del 17 luglio 1523 l’Ariosto dice che i balestrieri avevano trovato questo Frate che stava giocando tranquillamente a carte in una taverna di Camporgiano con gente del luogo e avevano tentato di catturarlo. Ma appena la gente che stava intorno ai giocatori vide arrivare i balestrieri “lo ascosero e lo fero fuggire in un campo di canape” . Naturalmente tutti sapevano dov’era ma nessuno lo denunciò. Fra gli altri c’era anche un certo Costantino di Castelnuovo che era notaio a Camporeggiano e anche lui tacque “ il qual poi si escusa che non vole essere amazzato”. Insomma anche le autorità hanno paura dei delinquenti. A ciò si aggiunga la eccessiva clemenza del Duca, sempre disposto a concedere grazie. In una lettera del 22 giugno 1522 l’Ariosto se ne lamenta con lui e dice che “le troppe grazie che vostra eccellenzia fa a questi omini de la Vicaria di Camporeggiano li inasinisce”, cioè li rende svogliati e disobbedienti come asini. E non è tutto. Accadeva talvolta, e neppure tanto raramente, che il duca assoldasse questi ribaldi usandoli come soldati nelle sue imprese fuori dalla Garfagnana. E l’Ariosto ne era lieto e avrebbe voluto che ce li tenesse a lungo. Addirittura in una lettera del 20 novembre 1523 di cui sono latori proprio gli “assassini” del Silico cioè il Moro e i suoi fratelli, l’Ariosto, dopo averli scusati per essersi presentati in ritardo perché sono poveri e non avevavo i soldi per il viaggio e solo dopo aver raccolto le castagne sono stati in grado di farlo, assicura il duca “che avrà buon servizio, perché credo che sieno valenti, e fidelissimi a chi servono”. Molto probabilmente costoro saranno stati utilizzati da Alfonso nella campagna che gli consentì, dopo la morte del papa Adriano VI (19.9.1523) di riappropriarsi della città di Reggio. Il fatto è che al duca tornava, poi, poco bene perseguitare questi che erano, sì, delinquenti, ma anche valenti soldati e “fidelissimi”. E pensare che questo Moro fu uno dei banditi che più hanno impegnato l’Ariosto. Egli era del Sillico ed era figlio, come già detto, coi fratelli Giugliano e Baldone, di un certo Pellegrino ,”il Peregrin del Silico”. Il Moro e Giugliano avevano sposato due sorelle di Cigerana (Ceserana) ed essi soggiornavano spesso in quel luogo. Pare che Giugliano ci vivesse abitualmente. Ma essi erano banditi ed era fatto divieto, alle comunità, di ospitare un bandito. Così l’Ariosto, quando accadde che Moro e fratelli, in combutta con altri, “assassinarono un prete pisano” proprio in quei luoghi, dovette infliggere al Comune di Cigerana una penale di 300 ducati. Ma se ne angustiava, perché era consapevole che quel comune era vittima di quei ribaldi e non era certo in grado di arrestarli o di scacciarli perché costoro “con li banditi loro seguaci…..si son fatti tiranni e signori di quel luogo”. D’altra parte bisognava risarcire il prete “assassinato” per “l’onore di vostra eccellenzia” per cui, non potendo catturare i colpevoli, si era penalizzato il povero comune di Ceserana di ben 300 ducati per aver tollerato la presenza dei banditi più altri 100 di risarcimento al prete pisano. Tuttavia a un certo momento riesce a mettere le mani su questo bandito e ne da notizia al duca con lettera del 28 maggio 1523. Ma già corre voce che gli amici del Moro abbiano chiesto la grazia al duca giustificandone in qualche modo le azioni delittuose. Se la grazia ci sarà l’Ariosto lo accetterà, ma almeno gli si facciano pagare il 100 ducati per restituirli “a questo povero commune di Cicerana”. In realtà la grazia non ci sarà, ma il Moro, con l’aiuto del figlio di Bastiano Coiaio che, andandolo a trovare, gli lasciò un coltello col quale riuscì a scassinare la porta della cella, fuggì. L’Ariosto ne da notizia al duca con lettera del 29 agosto 1523. E lo informa anche del contegno di Bastiano Coiaio il quale “con la sua solita insolentia ha detto parole assai altiere” dicendo che lui è perfettamente informato di ciò che l’Ariosto scrive al duca, cercando di intimorirlo affinchè la smetta di scrivere cose negative sul Moro e sui suoi fratelli. Il Bastiano Coiaio, come sappiamo, era amico e protettore di delinquenti, specie quelli del Sillico. E a poco portavano le continue sollecitazioni che l’Ariosto faceva sia ai lucchesi che ai fiorentini affinchè tutti insieme collaborassero e vicendevolmente si aiutassero a catturare i delinquenti che, ricercati in uno stato, facilmente si eclissavano passando nello stato vicino dove non erano conosciuti e ricercati. Un fatto di sangue molto grave accadde a San Donnino (oggi nel comune di Piazza al Serchio) che era un piccolo feudo assegnato ai conti di San Donnino. All’epoca era capo della famiglia il conte Giovanni che aveva una moglie e un unico figlio Carlo. Essi avevano una grossa famiglia nemica acerrima, che puntava, evidentemente, al dominio della zona. Era la famiglia Maddalena (l’Ariosto scrive Madalena) di cui si conosce il nome del capofamiglia Pier Madalena, quasi centenario e dei figli Giovanni (Gian), Piero, Ulivo e Nicolao. Ora accadde – presumibilmente agli inizi del 1522, ma la data esatta non si ricava dalle lettere, la prima delle quali in cui si parla del fatto è del 5 ottobre 1522 – che Giovanni Maddalena uccise Carlo, il conte giovane, e la madre e un tale Ginese (o Zenese), scagnozzo dei Maddalena, uccise Giovanni, il conte vecchio, estinguendo, così la famiglia dei Sandonnini. (1) In una lettera del 29 agosto 1523 l’Ariosto dice di avere in mano un documento col quale il Pier Madalena prendeva impegno, per sé e per i figli, a non offendere i conti di San Donnino e a pagare, ove questo fosse avvenuto, 200 ducati. E altri 150 sarebbero stati pagati se fosse stato Zenese a recare offesa. Forte di questo documento l’Ariosto aveva fatto arrestare il vecchio Pier Madalena affinchè pagasse. Ma, lamenta nella stessa lettera che “..si è agitato il processo lungamente..” e anche “con le scritture date in mano” al capitano di ragione le cose non vanno avanti. Né si ha notizia di condanne inflitte ai figli del Maddalena, che si erano rifugiati fuori dello stato, a Gorfigliano, terra lucchese, ove avevano portato anche tutto ciò che avevano rapinato in casa dei conti. In un posti scriptum della stessa lettera si sa, invece, che a San Donnino “in favore di questo Madalena s’ingrossa gente”. Nella lettera del 24 novembre 1523, poi, l’Ariosto avvisa il duca che il Gian Maddalena e i suoi fratelli con altri loro sostenitori (sono in 14) sono rientrati a San Donnino e chiede cosa deve fare perché ““Li balestrieri non sariano atti, non che a pigliarli, ma né ad affrontare, massime in quel loco, et in quel commune dove sono più favoriti che non v’erano quelli poveri conti.”” In conclusione è la triste constatazione che non si riesce a perseguire i crimini e a garantire un minimo di legalità. Altra categoria di personaggi che turbavano e disturbavano l’Ariosto con i loro discutibili comportamenti erano i preti. Essi hanno, talvolta, comportamenti assolutamente delinquenziali fino all’omicidio e allo stupro. Comunque sono spesso amici dei banditi che ospitano nelle chiese e nei campanili e proteggono in ogni modo.(2) Il fatto è che essi non possono essere condannati dalle autorità civili ma solo da quelle ecclesiastiche, ossia dai vescovi. Ora accadeva che la Garfagnana si trovava in parte (la parte nord, cioè la Vicaria di Camporgiano) sotto la giurisdizione del vescovo di Luni e in parte (la parte sud) sotto la giurisdizione del vescovo di Lucca. Già questa era una complicazione. Ma il fatto grave era che i vescovi punivano i preti in maniera molto molto blanda o non li punivano affatto. Nella lettera al Duca di Ferrara del 17 aprile 1523 l’Ariosto lo informa su un episodio emblematico: Due figlioli di ser Evangelista da Sillico (personaggio di rilievo, certamente colluso con i figli del Peregrin, cioè il Moro e i fratelli) erano scesi a Castelnuovo e avevano cercato di violentare una donna che, fra l’altro, era l’amante di un personaggio importante (tale Acconcio). Non erano riusciti perché la donna aveva ricevuto aiuto e si era rivolta al Capitano di Ragione per denunciare l’accaduto. Per questo un altro figliolo dell’Evangelista, tale prete Iob, “il quale è chierico in sacris” , trovò la madre della ragazza “e gli ruppe la testa e la lasciò per morta”. Il Capitano di Ragione tentò di condannarlo al pagamento di 200 lire ma il padre “produsse le bolle de li ordini del figliolo e fece venire una inibitoria dal Vescovo di Lucca” per cui il Capitano cessò di procedere e il prete Iob rimase impunito. L’Ariosto vorrebbe che anche i chierici cadessero sotto il rigore della legge come qualunque altro cittadino. E aveva scritto ai due Vescovi affinchè gli “dessino autorità sopra li preti”. Ma non aveva ricevuto risposta dal vescovo di Lucca e una risposta insoddisfacente da quello di Luni. Così dice sconsolatamente al Duca che non c’è da sperare nell’aiuto dei vescovi. E tanto per essere più chiaro racconta la sua esperienza “che questa passata estate mandai in mano al vescovo di Lucca quel prete Matheo che aveva ferito il mio cancelliero et era omicida e assassino publico e con poca acqua lo mandò assolto; e prima che venissi qui un prete Antonio da Soraggio, ch’aveva morto un suo cio (zio), fu in mano del vescovo di Luna, e con un misereatur fu liberato.” Ancora più duramente si esprime nella lettera al Duca del 2 maggio (presunto) quando dice che “li peggiori e li più parziali di questo paese sono li preti” E nella lettera al Duca del 20 luglio 1524, dando notizia della morte per malattia del prete “da Soraggio de li Bosi” , che era stato arrestato “per commissione del Papa Clemente VII” , dice “è morto e sta ben morto, perché era una mala bestia, e teneva in grandissima paura tutto Soraggio, e stuprava donne, e dava ferite e bastonate, et ogni dì n’avevo richiami.” Altro motivo di preoccupazione per il commissario era il pericolo del diffondersi della peste, che stava serpeggiando in Italia. La sua cura per la difesa della salute pubblica fu pronta ed efficace. Sospese o annullò fiere e mercati, chiese a Lucca di consentire agli uomini che andavano a Pisa a rifornirsi di sale, di poter sostare per la notte in luoghi appositamente predisposti per loro, in modo che non dovessero alloggiare negli alberghi ove il rischio di contagio sarebbe stato elevato. Purtroppo c’erano uomini che, al tempo della mietitura, andavano a mietere nelle Maremme e anche nel Lazio e, purtroppo, qualche caso di peste e qualche morto ci furono (per esempio a Roggio e anche altrove). Ma le misure prese, con accurato isolamento degli infetti, evitò il diffondersi del morbo. Intanto il 14 settembre 1523 moriva il Papa Adriano VI e Alfonso I approfittando della circostanza, si riprende Reggio con le armi, non avendolo potuto fare con le trattative. Ma il 19 novembre 1523 viene eletto Papa Clemente VII che è un Medici e in Garfagnana si diffonde il terrore perché si teme una nuova invasione. Già il 23 novembre l’Ariosto informa il duca dicendo che, appena giunta la notizia della nuova elezione “parve che a tutti fosse tagliata la testa, e ne sono entrati in tanta paura che furo alcuni che mi volean persuadere che quella sera medesima io facessi far le guardie alla terra; e chi pensa di vendere, e chi di fuggir le sue robe.” E l’Ariosto si sforza di tranquillizzare dicendo che il Duca ha buona amicizia con i Medici. E, infatti, non succede nulla. Dunque nell’autunno del 1523 il Duca Alfonso si riprende Reggio, che gli era stato tolto nel 1512 da Giulio II. Il quale Giulio II aveva concesso la rocca di Carpineti e – di fatto – il governo della montagna reggiana ad un tale Domenico Amorotto, figura singolare, mezzo capitano di ventura e mezzo bandito. Egli, che a Carpineti era nato, morì a Toano il 5.7.1523 e imperversò nella montagna reggiana e non solo (3) fino alla sua morte. Ed anche l’Ariosto ebbe a che fare con questo personaggio. Nella lettera del 25 novembre 1522 dice al Duca che un tale messer Zan Iacomo vuole convincerlo che Domenico Amorotto è una brava persona e un sincero amico del Duca Alfonso. L’Ariosto non ne è molto convinto “perché gli effetti che per li tempi passati ho veduto mi paron contrarii”. Lo ritiene anche un grosso ambizioso perché ha saputo che egli sta cercando di “essere fatto commissario similmente del piano di Reggio, come è della montagna” Tuttavia, dice ancora l’Ariosto, “io mi son sforzato fin adesso di tenermilo per amico” e, per la verità, fino ad ora non ha molestato questa provincia. Sarà quindi bene che anche il Duca “anco con estrinseche dimostrazioni si sforzi di tenere Domenico, se non amico, almen non nimico”. Nella lunga lettera al Duca del 2 maggio 1523, poi, riferisce dell’offerta che l’Amorotto gli ha fatto giungere. Egli interverrebbe con trecento suoi armati per catturare i furfanti di Ponteccio e di Dalli (vicinissimi alla montagna reggiana). L’Ariosto, previo consenso del Duca, sarebbe favorevole ad accettare l’offerta, imitando “Cristo che disse de inimicis meis cum inimicis meis vendicabo me.” In effetti essendo l’Amorotto ancora al servizio della chiesa era da considerarsi più un nemico che un amico. Egli, però, si proclama amico del Duca “chè mi scrive che per vostra eccellenzia è per porre la roba e la vita propria”. Tutto questo sembra provare che nel reggiano e nel modenese erano tanti gli uomini rimasti fedeli al Duca estense e, forse, desiderosi di tornare sotto il suo dominio (4) L’unica cosa che, fortunatamente, mancò durante il governo dell’Ariosto fu la necessità di fronteggiare con le armi nemici esterni. Ci fu, tuttavia, un fatto d’arme di un qualche rilievo che gli creò qualche preoccupazione . Nel giugno del 1524 il famoso capitano di ventura Giovanni delle Bande Nere stava conducendo le sue guerricciole contro i Malaspina della Lunigiana. E accadde che, verso la fine di giugno, un gruppo di soldati di questo capitano, pare a sua insaputa, si diresse, sotto la guida di un certo capitano Todeschino, verso la Garfagnana invadendola. Il duca teneva i suoi castelli garfagnini pressoché sguarniti, per cui non ci furono difficoltà, per la soldataglia di Todeschino, nella conquista di Camporeggiano e del suo castello, che, pure, era, secondo l’Ariosto, “la rocca più forte”. Ma Todeschino mirava alla conquista di Castelnuovo ove, evidentemente, sperava di trovare più consistenti prede. E l’Ariosto, che, fra l’altro, in quei giorni era a Modena, coi suoi quindici balestrieri, non avrebbe certo potuto opporre una resistenza efficace. Ma ecco che i capi-fazione locali, soprattutto di parte italiana ma anche di parte francese, arruolarono 400 mercenari coi quali non solo sbarrarono la strada agli invasori che non poterono conquistare Castelnuovo, ma addirittura li ricacciarono fino a Camporgiano ove avvenne una piccola battaglia con alcuni caduti ( quattro o cinque) sia da una parte che dall’altra. Fra l’altro era accaduto che alcuni uomini del capitano Todeschino litigarono con lui rinfacciandogli la cattiva condotta delle operazioni e la mancata occupazione di Castelnuovo. E la lite si esasperò al punto che gli uomini misero mano alle armi e il Todeschino rimase ferito piuttosto gravemente. A quel punto gli invasori, constatato che i difensori erano in numero maggiore, chiesero aiuto ai compagni rimasti in Lunigiana. E, prontamente, il capitano Morgante Demino giunse con diversi armati. Ma anziché aiutare gli uomini di Todeschino, li rimproverò per questa azione avventata fatta all’insaputa di Giovanni, restituì il castello al notaro Constantino che era l’unica autorità presente, lo pregò di aver cura del Todeschino ferito (5) e riportò in Lunigiana tutta la masnada. Nell’azione di difesa si distinsero, come si è detto, tutti i capi-fazione, specie quel Pierino Magnano di Castelnuovo ma abitante a Trassilico, Acconcio e altri ma anche i delinquenti che facevano dannare l’Ariosto (anche se a lui rimase il dubbio che alcuni di loro fossero quelli che avevano chiamato il Todeschino per poter depredare a loro piacimento approfittando della confusione. Infatti nella lettera del 5 luglio 1524 al duca l’Ariosto dice che “Ulivo e Nicolao da Ponteccio, i figli del Madalena e Bosatello (Cornacchia) militano con loro”). E il Duca non lesinò riconoscimenti a Pierino Magnano, cosa che innervosiva l’Ariosto giacché constatava che tale Pierino approfittava dell’occasione per trarne vantaggio tiranneggiando i poveri diavoli. In effetti, come abbiamo detto, durante il governatorato dell’Ariosto, la Garfagnana non fu coinvolta nelle lotte che pure in quegli anni impegnavano Francesco I di Francia e Carlo V nelle sanguinose guerre di predominio. Però un passaggio di truppe di una certa imponenza si verificò verso la fine del 1524. Accadde che Francesco I, ritenendo di poter tentare la conquista del napoletano, inviò 8000 fanti, 200 lancieri e seicento cavalli al comando di Giovanni Stuart duca d’Albany che, attraverso il passo di Pradarena giunsero a Sillano la sera del 30 dicembre per poi scendere verso Lucca e la Toscana attraversando la Garfagnana. L’Ariosto (lettera agli Anziani della Repubblica di Lucca del "penultimo decembris 1524” dice che è molto meravigliato che nessuno gli abbia parlato di questo passaggio. Egli ha saputo dagli uomini di Sillano “come iarsera a ore dui di notte arrivò uno furiero del ditto Duca (lui lo chiama Duca d’Albania) che domandava vettovaglia per 14 m. persone tra piedi e cavallo e che questa sera alli 30 di decembre arriveranno a Sillano: Ora io mando dui altri omini per avere più chiara informazione”. E’ evidente che l’Ariosto non è tranquillo. Il passaggio di 14000 armati (tanti a lui risultavano) genera sempre un po’ di preoccupazione. Anche se l’Ariosto sa bene che i francesi sono alleati del Duca Alfonso e, quindi, si comporteranno da amici. E, in effetti, danni non ne fecero. Le lettere scritte dall’Ariosto nel successivo1525 sono soltanto dodici, di cui una scritta agli Otto di Pratica della Repubblica fiorentina per segnalare un furfante di Ponteccio, tale Bernardello, che si trova in quel di Fivizzano e che andrebbe arrestato. Ma le speranza che questo accada sono poche. Le altre sono tutte indirizzate agli Anziani della Repubblica di Lucca in genere per intercedere a favore di qualche suddito caduto in qualche guaio o per sanare contese e conservare la pace. Uno dei sudditi estensi inguaiato e quel Belgrado di Valico che abbiamo già incontrato in queste storie. Egli arrestato dai lucchesi fin dall’aprile del 1923 perché aveva messo una taglia a un tale suddito di Lucca e questo era considerato un grave reato. Lui si difendeva dicendo che quel tale era suo debitore, ma per risolvere la questione e liberarlo dovrebbe versare una somma ingente che non ha. E l’Ariosto intercede proponendo certe soluzioni. Ma quando scrive l’ultima lettera, che è del 30 maggio 1525, la cosa non è ancora risolta. Pochi giorni dopo, nel giugno 1525, l’Ariosto sarà richiamato a Ferrara e lascerà la Garfagnana con un gran sospiro di sollievo.
NOTE:
1) Nella lettera del 8.2.1524 l’Ariosto si mostra grato al Duca che, finalmente, ha ordinato a
quelli di Verugole (Verrucole) di consegnare il Genese (o Zenese) nelle sue mani. Egli
assicura che è già stato condannato e che non se lo lascerà sfuggire come è accaduto con
il Moro. Il fatto deplorevole era che quelli di Verugole, che avevano arrestato il Genese,
non volevano consegnarlo all’Ariosto perché pensavano che avesse preso soldi dai
Maddaleni e che, quindi, non avrebbe fatto condannare il Genese. Essi erano amici dei
conti di San Donnino e, quindi, nemici dei Maddaleni. L’Ariosto è indignato e, ancora una
volta, implora il Duca di togliergli l’incarico e di richiamarlo a Ferrara “e che mandi qui
uno in mio luogo che abbia miglior stomaco di me a patire queste ingiurie, che a me non
basta la pazienza a tolerarle”.
2) Nella lettera del 8 febbraio 1524, disperato per il fatto che questi preti (di Careggine, di
San Romano ed altri) continuano a dar asilo ai banditi, l’Ariosto arriva a dire che il
Capitano di Ragione, di fronte a questi episodi “ cacciasse subito il foco, e massime in le
canoniche delle chiese”
3) Il Guicciardini, governatore di Reggio, in una lettera al Papa Adriano VI, lamenta le
difficoltà a causa del fatto che la montagna è dominata da quel Domenico Amorotto che
“è un rustico lì nato”, tanto che “in effecto non nostro Signore ma loro sono padroni di
questa terra e quasi di Modena”
4) Ancora il Guicciardini in una lettera al cardinale Giulio de’ Medici afferma che se il Duca
di Ferrara volesse riprendersi queste terre potrebbe farlo facilmente perché il popolo,
anche se è contento del governo della Chiesa perché paga poco, tuttavia “in uno frangente
non piglierebbero le armi per noi perché per rispetto delle politiche passate pare loro a
ogni ora vedere che queste terre si restituischino al Duca di Ferrara.”
5) Il Todeschino fu portato a Castelnuovo e curato tanto che il 20 luglio l’Ariosto dice al
Duca che sta meglio (l’ha anche interrogato) e che pensa che risanerà. Ma il 2 agosto 1524
scive ancora al Duca che il Todeschino è morto. E, fino all’ultimo “è stato fermo nel
proposito che ‘l Signore Gianino (Giovanni delle Bande Nere) nulla ne sapea” della
scorreria in Garfagnana.
Nessun commento:
Posta un commento