Storia e tradizioni
Il Moro del Sillico
Il "Moro del Sillico" è indubbiamente il sillichino più famoso di tutti i tempi, sebbene la sua fama sia frutto di attività non sempre legittime e dalla fortuna/sfortuna di aver incontrato il poesta Ludovico Ariosto come governatore della Garfagnana Estense. Giuliano, così si chiamava "il Moro", fu infatti uno dei banditi più temuti della zona e la sua origine sillichina gli valse la libertà più volte dopo che l'Ariosto lo fece arrestare. Tutto ciò perchè Sillico e i suoi abitanti godevano di particolari attenzioni presso il Duca d'Este in quanto prima comunità della Garfagnana a chiedere di passare nel ducato. Ecco che la frustrazione dell'Ariosto compare in una serie di lettere in cui il governatore, non certo felice di tale incarico, lamenta il fatto che i suoi sforzi per arrestare il temibile bandito erano vanificati da una sorta di "indulto permanente" nei confronti dei sillichini. Nel tempo la figura del Moro è stata variamente romanzata nei racconti popolari ed oggi è visto come una sorta di Robin Hood, un bandito buono più vicino alla popolazione locale di quanto non lo fossero i governanti. Le lettere dell'Ariosto sono conservate in copia a Palazzo Carli.
http://www.archive.org/stream/letterea00ariouoft#page/ii/mode/2up
LUDOVICO ARIOSTO, COMMISSARIO ESTENSE IN GARFAGNANA
Il male vivere garfagnino, la lontananza dal "nido" ferrarese ed il falso mito del "Ludovico della tranquillità"
Nam si ratio et prudentia curas, non locus affusi late maris arbiter aufert, caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt. Strenua nos exercet inertia: navibus atque quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est, est Ulubris, animus si te non deficit aequus [Se la logica della saggezza, e non i luoghi che dominano la distesa del mare, allontana gli affanni, chi solca il mare muta cielo, non natura. Un'inquietudine impotente ci tormenta e andiamo per acque e terre inseguendo la felicità. Ma ciò che insegui è qui, a Ùlubre, se non ti manca la ragione] (da Orazio, Epistole 1, 11 vv. 25-30; trad. M. Ramous)
Il rapporto tra l’uomo ed il luogo in cui egli vive è da sempre strettamente legato alla questione della felicità. L’uomo è felice a prescindere dalla bellezza del luogo in cui vive? Come emerge dall’epigrafe, la risposta di Orazio a tale domanda è sì: la felicità, il bene vivere oraziano è dentro l’uomo. È inutile sognare gli splendori delle isole greche o le bellezze delle città dell’Asia Minore. Il bene vivere lo si può trovare anche ad Ulubre, piccolo quanto misero paese, situato nei pressi delle insalubri paludi pontine. L’insegnamento oraziano ci invita a perseguire una metanoia interiore piuttosto che logistica. L’equilibrio interiore, però, è una conquista difficile. È una meta che come un miraggio, spesso appare tangibile, se ne pregustano i benefici, ma poi la presa di coscienza della sua ineffabilità fa ripiombare l’uomo - viaggiatore nella accecante desolazione del deserto, del nulla che sembra circondarlo. Lo sa bene lo stesso poeta di Venosa, quando si vede costretto ad ammettere che la sua ricerca dell’equilibrio dipende ancora in buona parte da fattori esterni, dai luoghi appunto («Romae Tibur amem ventosus, Tibure Romam», affermerà in un altro passo famoso delle sue Epistole). Orazio sogna la dolcezza della campagna romana, ma quando vi si trova immerso rimpiange la caotica Roma. Un luogo non è mai in via definitiva oggettivamente ameno o inospitale, esteticamente bello o brutto, felice o triste. Orazio aveva compreso che non si doveva cambiare il luogo per vivere bene, ma bisognava lavorare su se stessi. Il grande dramma umano del poeta latino è condensato proprio nella consapevolezza che tale paradigma non potrà essere declinato nel concreto, che tale idea rimarrà confinata nell’iperuranio. Premesso, dunque, che è l’uomo a percepire i luoghi in relazione alla sua condizione interiore, possiamo affermare allora che uno stesso territorio può essere recepito in modi diametralmente opposti. Su la nebbia che fuma dal sonoro Serchio, leva la Pania alto la fronte nel sereno: un aguzzo blocco d'oro, su cui piovano petali di rose appassite. Io che l' amo il vecchio monte, gli parlo ogni alba, e molte dolci cose gli dico […]
I versi appena citati sono quelli di The hammerless gun, lirica composta da Giovanni Pascoli e contenuta in Canti di Castelvecchio. Il “vecchio monte” è la Pania della Croce, uno dei monti più alti delle Alpi Apuane. Lo scenario è quello della valle del Serchio. Lo stesso luogo, o quasi (da Castelvecchio di Barga ci spostiamo solo di qualche chilometro, giungendo a Castelnuovo di Garfagnana), qualche secolo prima rispetto a quelli di Pascoli, viene così dipinto dai versi di un altro illustre rappresentante della nostra poesia: La nuda Pania tra l'Aurora e il Noto, da l'altre parti il giogo mi circonda che fa d'un Pellegrin la gloria noto.
Questa è una fossa, ove abito, profonda, donde non muovo piè senza salire del silvoso Apennin la fiera sponda.
Come si può facilmente notare, la “topografia” (qui intesa nella sua etimologia greca, “scrivere un luogo”) della stessa terra cambia radicalmente; la tavolozza dei colori si scurisce. La Garfagnana descritta in questi versi è offerta al lettore in una colorazione ben diversa da quella che ne dà il poeta dei Canti di Castelvecchio. L’autore di queste due terzine è Ludovico Ariosto. Esse fanno parte della IV satira, composta dal poeta ferrarese nel febbraio del 1523, esattamente un anno dopo (20 febbraio 1522) l’insediamento a Castelnuovo di Garfagnana dove ricoprì fino al giugno del 1525 la carica di Commissario per conto del Duca Alfonso d’Este. Nei versi ariosteschi, la Pania della Croce non ha più l’aspetto benigno di una compagna fedele che accoglie l’edulcorata quanto consueta allocuzione mattutina del poeta di Myricae, ma diviene metafora soffocante di un “giogo” che tiene confinato in una regione feroce ed ostile il poeta estense. Risulta interessante vedere nel proseguo della IV satira come Ariosto continua la descrizione di quel luogo: O stiami in Ròcca o voglio all'aria uscire, accuse e liti sempre e gridi ascolto, furti, omicidii, odi, vendette et ire;
sì che or con chiaro or con turbato volto convien che alcuno prieghi, alcun minacci, altri condanni, altri ne mandi assolto;
ch'ogni dì scriva et empia fogli e spacci, al Duca or per consiglio or per aiuto, sì che i ladron, c'ho d'ogni intorno, scacci.
Déi saper la licenzia in che è venuto questo paese, poi che la Pantera, indi il Leon l'ha fra gli artigli avuto.
Qui vanno li assassini in sì gran schiera ch'un'altra, che per prenderli ci è posta, non osa trar del sacco la bandiera.
Saggio chi dal Castel poco si scosta! Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna secondo ch'io vorrei mai la risposta.
Ogni terra in se stessa alza le corna, che sono ottantatre, tutte partite da la sedizïon che ci soggiorna.
La Garfagnana ai tempi dell’Ariosto doveva essere sicuramente un luogo diverso da quello in cui Pascoli qualche secolo più tardi deciderà di ricostruire il suo “nido”. La Garfagnana in cui Ariosto visse per tre anni era una terra dove folte, impenetrabili boscaglie si inerpicavano lungo le impervie pendici dei monti. Lo è ancora oggi, e lo era anche ai tempi dei Canti di Castelvecchio di Pascoli, si potrebbe facilmente obiettare. C’è, però, una differenza sostanziale. Agli inizi del XVI secolo quegli stessi “sassi”, come li definisce con tono non certo lusinghiero l'illustre ferrarese, quelle stesse selve, quegli stessi anfratti fornivano un prezioso riparo a temibilissimi gruppi di banditi. Una terra popolata da "gente inculta, simile al luogo ove ella è nata e avezza" dirà lo stesso poeta nella VII satira, infestata da ladri di ogni genere e da spietati assassini ed afflitta dalla più soffocante indigenza. La Garfagnana, inoltre, era una regione che, come la sua travagliata storia tra Quattrocento e Cinquecento dimostrava, mal tollerava l'assoggettamento politico. La regione era stata lucchese fino al 1426 (la “Pantera” di cui parla Ariosto è proprio Lucca), anno in cui passò sotto il dominio di Ferrara e degli Estensi con alcune brevi parentesi nelle quali la Garfagnana tornò ad essere lucchese (durante le guerre di Giulio II, e più precisamente nell'ottobre del 1512) e poi, nel settembre del 1521 quando, dietro consiglio del papa mediceo Leone X (il “Leone” di cui parla Ariosto nella sua satira), divenuto in quegli anni acerrimo nemico degli Estensi, venne conquistata dai fiorentini. La morte del pontefice, avvenuta il 1° dicembre di quello stesso anno, permise agli Estensi di rientrare in possesso del loro antico dominio, aiutati in questo dai notabili di Castelnuovo, i quali scacciarono il commissario pontificio (l'8 dicembre), richiedendo nel contempo la protezione di Ferrara, memori della larga autonomia che gli Estensi stessi avevano concesso alla provincia nel periodo precedente. Si narra che proprio in quella occasione, i garfagnini consegnarono alla memoria dei posteri l'evento, facendo scolpire sulla porta d'ingresso di Castelnuovo un leone simbolo del papato, che soccombeva all'aquila estense. L'ostilità dei garfagnini verso Firenze (sebbene risulti utile ricordare l'esistenza anche di una potente fazione filo-medicea e filo-papale in quelle terre) risultò palese quando nel novembre del 1523, dopo i due anni di pontificato del fiammingo Adriano VI, fu eletto papa un altro esponente della famigli de' Medici, Giulio, il quale si impose il nome di Clemente VII; la popolazione garfagnina avvertì in quel momento il pericolo di un possibile reintegro del proprio territorio tra i domini di Firenze. Ariosto, che in quel momento era ancora nel pieno della sua carica commissariale, descrisse la reazione degli abitanti di Castelnuovo nella lettera del 23 novembre inviata al duca Alfonso: [...] Appresso mi venne una lettera da Lucca che mi avisava come Medici era creato papa; la qual nuova come si udì da questi di Castelnuovo, parve che a tutti fosse tagliata la testa, e ne sono intrati in tanta paura che furo alcuni che mi volean persuadere che quella sera medesima io facessi far le guardie alla terra; e chi pensa di vendere,e chi di fuggir le sue robe. Io mi sforzo di confortarli, e dico lor ch'io so che stretta amicitia è tra vostra excellentia e Medici, e che non hanno da sperar se non bene [...]. I garfagnini imbracciarono addirittura le armi, allorquando nell'estate del 1524 si trattò, come vedremo più innanzi, di scacciare dalle proprie terre le truppe fiorentine. Un’istanza di sostanziale indipendenza politica fu ciò che permise agli Estensi, unici a garantirla, di entrarne in possesso definitivamente nel dicembre del 1521. Dunque, una terra difficile da governare per le forti spinte autonomistiche, che regolavano e muovevano, sebbene in direzioni opposte, l'operato di due diversi "partiti". I notabili garfagnini si dividevano, infatti, in due fazioni: una, detta “italiana” che, come già detto, era filo-ecclesiastica e filo-fiorentina, l’altra, definita “francese”, in quanto vicina al Duca d’Este, alleato della Francia. Come se non bastasse, il primo commissario della nuova stagione di dominio estense su quella provincia, avrebbe dovuto mettere in conto anche la riottosità di ciascuno degli ottantatre comuni posti sotto la sua giurisdizione ("Ogni terra in se stessa alza le corna /che sono ottantatre, tutte partite / da la sedizïon che ci soggiorna", dirà ancora nella IV satira), divisi in quattro vicarie: Castelnuovo, Camporgiano (o Camporeggiano), Trassilico e Terre Nuove. Ludovico Ariosto aveva fin da subito compreso che quella carica gli avrebbe fruttato ben pochi onori e tanti rischi; infatti, il poeta conosceva già la regione, dal momento che vi era andato in due occasioni. La prima escursione in terra garfagnina l'aveva compiuta nel marzo del 1509, quando il gaudente cugino Rinaldo, in quel tempo commissario estense a Castelnuovo, lo volle per il disbrigo di alcuni uffici relativi al suo terzo matrimonio con Contarina Farnese. Come si può ben vedere, il commissariato garfagnino fu un vero e proprio destino di famiglia[9]. Il secondo soggiorno, sicuramente più turbolento rispetto al primo, ebbe luogo nel 1512, quando Ariosto, che scappava insieme al duca Alfonso dalle grinfie degli scherani di Giulio II, venne ospitato dall'allora commissario estense, il medico Guido Postumo, che aveva sostituito in quell'incarico Rinaldo. Semmai vi fossero dei dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostica e complicata da gestire, possiamo citare la testimonianza fornita dallo stesso Guido Postumo, che sofferente ed esasperato, in una missiva inviata nel settembre del 1512 al cardinale Ippolito d'Este, scriveva: Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch'io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch'io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua. In virtù di quanto appena detto a proposito delle condizioni della Garfagnana negli anni venti del XVI secolo, può essere molto fondata l'impressione di Antonio Baldini, il quale evidenzia come «l’impetuosa e ridente giovenilità dell’Orlando furioso» scompaia nelle lettere garfagnine per lasciare spazio ad «un’impressione di grigio, di chiuso e di mortificato e ci rendono l’immagine di una persona freddolosa, preoccupata e guardinga». Non basta, però, attribuire all’inospitalità del luogo tutta l’insoddisfazione, quell’irrequietezza, quel male vivere per citare ancora Orazio, quell'afflizione così lontana dalle «divine emozioni che ispirano i Canti pascoliani», “…che trasudano dalle lettere inviate al Duca Alfonso dal poeta, relegato nella sua torre di Castelnuovo”. Insoddisfazione già colta nella IV satira e che riemergerà nella VII, anch'essa composta nella rocca di Castelnuovo. Possiamo giustificare questo grigiore garfagnino con il ricordo ancora vivo nel poeta degli incarichi diplomatici precedentemente ricoperti, ed in particolar modo quelli presso la corte papale, che lo videro impegnato a più riprese tra il 1509 ed il 1517. Incarichi sicuramente più prestigiosi di quello toscano, che inizialmente lo avrebbero indotto a rapportarsi con una certa superficialità alla realtà politica della Garfagnana, estremamente caotica come detto, e per questo necessitante di una guida decisa. Angelo Stella, riferendosi proprio a questo atteggiamento iniziale del Ariosto nel ricoprire il nuovo ruolo di commissario, parla di "presunzione politica"], che nasceva dall'aver svolto missioni diplomatiche di ben altra levatura. L'attività di diplomatico estense presso la corte papale fu prestigiosa certo, ma non per questo umanamente meno avvilente come quando, entrato in contatto con la corte del neo eletto papa Leone X, aveva sperimentato il nepotismo del pontefice mediceo, figlio del Magnifico. Uffici diplomatici che, più in generale, non erano stati meno rischiosi del commissariato garfagnino, se si pensa ai rapporti che intercorrevano in quegli anni tra Ferrara e lo Stato pontificio, specie in concomitanza con i pontificati medicei di Leone X e Clemente VII, su cui ritorneremo quando passeremo ad analizzare le relazioni turbolente che il commissario Ariosto ebbe con i rappresentanti fiorentini. A tal proposito citiamo il curioso primato detenuto dal duca Alfonso, che da massimo rappresentante politico di Ferrara, fu scomunicato ben tre volte e da tre papi diversi: Giulio II, Leone X e Clemente VII Rammentiamo in questa sede solo una vicenda che ha carattere esemplare per quanto abbiamo appena affermato circa i burrascosi rapporti diplomatici tra Ferrara e Roma e che, come già riportato in questo studio, portò il poeta a recarsi per la seconda volta in Garfagnana. L'episodio in questione, a cui lo stesso Ariosto si riferisce seppur indirettamente nella lettera datata primo ottobre 1512 ed inviata a Ludovico Gonzaga, principe di Gazzolo e Sabbioneta, ebbe inizio nel giugno di quello stesso anno, allorquando il duca Alfonso accompagnato proprio dal poeta fece visita al vigoroso pontefice Giulio II ("Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente", scriveva Machiavelli nel suo Principe). Non fu certo una visita di cortesia, dal momento che il vicario di Cristo era ancora adirato (ci manteniamo per decenza nei limiti dell'eufemismo) per il tradimento del duca estense, il quale, dopo aver combattuto per la Lega di Cambrai nella guerra contro Venezia (guidando per di più le truppe pontificie con il titolo Gonfaloniere della Chiesa), aveva preferito allearsi con i francesi quando, tra il 1511 ed il 1512, Giulio II aveva promosso una nuova lega (la Lega Santa) proprio contro i transalpini. La vittoria franco-estense nella famigerata battaglia di Ravenna, combattuta nell'aprile del 1512, però, non fu foriera di un successo definitivo; dopo questa battaglia, infatti, i francesi si ritirarono ed il duca rimase solo. Fu allora che Alfonso, per convenienza pentitosi della sua infedeltà, si recò personalmente a Roma insieme all'Ariosto, con il chiaro obiettivo di riappacificarsi con il pontefice e di limitare i danni. Fabrizio Colonna, padre della poetessa Vittoria e capo di una delle più potenti famiglie romane, memore dell'amicizia con il duca Alfonso, nata durante la sua "prigionia" ferrarese dopo la già menzionata battaglia di Ravenna (11 aprile 1511), si attivò personalmente per preparare il terreno per quell'incontro con Giulio II che avrebbe dovuto sancire la riappacificazione. Sembrava oramai che la frattura tra il pontefice ed il duca si fosse ricomposta del tutto, dopo che Alfonso, genuflettendosi innanzi al papa, aveva chiesto solennemente il suo perdono. La questione, in realtà, non era stata affatto risolta del tutto, in quanto il pontefice, evidentemente fomentato dall'abile signore di Carpi, Alberto Pio, e sempre desideroso di esercitare un potere diretto sulla Romagna e sull'Emilia, aveva imposto ad Alfonso di rinunciare a Ferrara (ridicolizzandolo con il contentino di Asti, tolta ai francesi o in alternativa all'esiguo dominio piemontese, con quello di Urbino), e di liberare i suoi fratelli Giulio e Ferrante. Il duca non poteva certo assecondare le inique richieste del pontefice e, dal momento che il papa appariva sempre più perentorio sulle sue posizioni, arrivando fin anche a minacciare di imprigionarlo, non potette adottare altra soluzione se non quella di fuggire da Roma travestito da frate, iniziando così con lo stesso Ariosto un'avventurosa fuga tra l'Umbria e la Toscana, durata ben quattro mesi con il sempre incombente pericolo della cattura per mano delle milizie pontificie. Nei pressi di Firenze, non ancora fuori pericolo, il poeta tra il grottesco di un mascheramento "fuor de stagione" ed il terrore di essere braccati dai "levrieri", ovvero gli sbirri pontifici, ebbe tempo di narrare al Gonzaga il modo in cui aveva trascorso la notte accanto al duca, qui appellato come "nobile mascherato"]. Ill et ex domino meo obs Ludovico Gonzagae Principi. Mantuae. Vostra Signoria excellentissima ha certamente de la fada e del negromante, o di che altro più mirando, nel venirmi a ritrovar qui con la sua lettera del XX augusti, hor hora che sono uscito de le latebre e de' lustri de le fiere e passato alla conversation de gli homini. De' nostri periculi non posso anchora parlare:animus meminisse horret, luctuque refugit, e d'altro lato Vostra Signoria ne havrà odito già: quis iam locus quae regio in terris nostri non plena laboris? Da parte mia non è quieta anchora la paura, trovandomi anchora in caccia, ormato da levrieri, da' quali Domine ne scampi. Ho passata la notte in una casetta da soccorso vicin di Firenze, col nobile mascherato, l'orecchio all'erta et il cuore in soprassalto. Quis talia fando etc. L'illustrissimo signor Duca, con il quale heri ha conferito longamente il C. Pianelli, parlerà de' duo affari al Cardinale, il quale fra giorni si aspetta da Bologna, et io medesimo per quanto sia bono a poterla servire adoperrò ogne pratica, essendo de l'honore de Vostra Signoria, qual affectionato servitore, bramosissimo. Quello sia da fare e da sperare saprà da m. Rainaldo e fido che ne serà satisfatta, quantunque io non sia troppo gagliardo oratore. Il cielo continua tuttavia molto obscuro, onde non metteremoci in via così sùbeto per non haver anchora ad andar in maschera fuori de stagione e col bordone. Voglia Vostra Signoria recarmi alla memoria de la Illustrissima S. Principessa Flisca quanto è permisso a observantissimo e deditissimo servitore, et a quelle in buona gratia mi raccomando. Florentiae, 1 octobris MDXII. Di V. S. ex Humilis et deditis servus Lud. Ariostus. Potremmo così escludere che l'avvilimento ariostesco nello stare confinato in Garfagnana fosse dovuto ad una questione legata al prestigio dell'incarico. A suffragare la nostra idea, inoltre, ci rifacciamo alla già ricordata VII satira, composta nei primi mesi del 1524 in Garfagnana ed indirizzata all'amico e segretario ducale Bonaventura Pistofilo. In questa satira Ariosto rifiutava l'invito del duca Alfonso di recarsi proprio a Roma. Il duca, infatti, al fine di assecondare le sempre più pressanti richieste di Ariosto di essere sollevato dall'incarico a Castelnuovo aveva chiesto al suo suddito di andare a ricoprire l'incarico di ambasciatore estense presso il nuovo papa mediceo Clemente VII. Il poeta, però, sebbene fosse consapevole che recarsi a Roma avrebbe significato allontanarsi dalla "fossa" garfagnina e vivere in modo meno "duro et acro", clamorosamente non accettò l'ambasciata romana. Da me stesso mi tol chi mi rimove da la mia terra, e fuor non ne potrei viver contento, ancor che in grembo a Iove. E s’io non fossi d’ogni cinque o sei mesi stato uno a passeggiar fra il Domo e le due statue de’Marchesi miei, da sì noiosa lontananza domo già sarei morto, o più di quelli macro che stan bramando in purgatorio il pomo. Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro campo di Marte senza dubbio meno che in questa fossa abitar duro et acro. Ma se 'l signor vuol farmi grazia a pieno, a sé mi chiami, e mai più non mi mandi più là d'Argenta, o più qua del Bondeno. Il tormento ariostesco non sembra trovare giustificazioni valide nemmeno sul terreno del prestigio dell'incarico. È chiaro che non possiamo del tutto trascurare il fatto che le cause di questa insoddisfazione nascessero anche dalla morfologia del luogo e dei suoi abitanti, così come non possiamo trascurare che la carica di commissario estense, sebbene in linea generale dovesse considerarsi comunque di prestigio, poteva anche non essere annoverata dal poeta come una delle più insigni da egli ricoperte. Ma queste sono concause minori che si legano a nostro avviso ad una motivazione più intima, più profonda, meno contingente verrebbe da dire. Proprio l'ultima terzina del passo appena riportato della VII satira può illuminare il nostro cammino che dovrà portarci a fornire finalmente una risposta ancor più decisiva all'insofferenza garfagnina del cantore di Orlando. Come abbiamo avuto modo di leggere, pur avendo declinato l'invito del duca, Ariosto non disperava di poter ricevere una "grazia" dal suo signore: la grazia in questione consisteva nel non essere impiegato in compiti che non lo allontanassero più di qualche chilometro da Ferrara. Siamo giunti al passaggio decisivo. Il poeta è lontano dalla sua amata Alessandra ("da chi tien del mio cor solo la briglia", verrà definita dal poeta nella IV satira), dai suoi affetti familiari, dalla sua piccola abitazione in contrada Mirasole; in altre parole, Ariosto è lontano da Ferrara, il suo vero “nido”, e non solo nelle implicazioni affettive del termine nell'accezione "pascoliana", sebbene esse non vadano affatto trascurate, specie per quanto concerne l'amore per Alessandra Benucci. Nella VII satira, infatti, Ariosto riferisce con vergogna, con la "faccia più vermiglia" di una dama ferrarese truccata o di un padre canonico ubriaco, che è proprio il forte sentimento d'amore, evidentemente ritenuto poco adatto ad un uomo che si approssima ai cinquant'anni, la ragione principale del suo intensissimo legame con Ferrara. Da notare che in questo passo della satira Ariosto parla proprio di "nido", riferendosi alla sua città: Se perché amo sì il nido mi dimandi, io non te lo dirò più volentieri ch'io soglia al frate i falli miei nefandi; che so ben che diresti: «Ecco pensieri d'uom che quarantanove anni alle spalle grossi e maturi si lasciò l'altro ieri». Buon per me ch'io me ascondo in questa valle, né l'occhio tuo può correr cento miglia a scorger se le guancie ho rosse o gialle; che vedermi la faccia più vermiglia, ben che io scriva da lunge, ti parrebbe, che non ha madonna Ambra né la figlia, o che 'l padre canonico non ebbe quando il fiasco del vin gli cadde, in piazza, che rubò al frate, oltre li dui che bebbe. S'io ti fossi vicin, forse la mazza per bastonarmi piglieresti, tosto che m'udissi allegar che ragion pazza non mi lasci da voi viver discosto. Per il Ludovico che va in Garfagnana, Ferrara non però ha solo il volto della sua Alessandra; Ferrara è anche il luogo dove Ludovico era divenuto fin dai primi anni del Cinquecento il poeta di corte più prestigioso, oltre che insigne diplomatico. Ariosto era il poeta a cui il duca Alfonso aveva affidato la realizzazione di una commedia per il carnevale del 1508 (la Cassaria); un carnevale molto importante, in quanto rappresentava la prima festa pubblica ferrarese dopo la morte di Ercole I (1505) e dopo la congiura dei "bastardi" don Giulio e don Ferrante che avevano minacciato la successione di Alfonso (1506). Inoltre, a partire dal 1517, dopo aver rifiutato di partire per l'Ungheria al seguito del cardinale Ippolito (l'episodio è molto noto in quanto è l'occasione della prima satira, sulla quale ritorneremo a breve) e passando alla corte del duca Alfonso, aveva potuto finalmente risiedere stabilmente a Ferrara almeno fino alla sua designazione commissariale in terra toscana. Tra il 1517 ed il 1521, Ariosto era divenuto, anche grazie al successo della prima edizione dell'Orlando furioso, l'indiscusso protagonista della scena culturale cittadina. Volendo riassumere quanto detto, alla vigilia della sua partenza per la Garfagnana descritta sopra, Ludovico Ariosto vive nel suo "nido" ferrarese dove può godere stabilmente della vicinanza dei familiari, dove può sperimentare quotidianamente l'ammirazione dei suoi concittadini, dove è uno dei protagonista assoluti della vita cittadina, dove può inorgoglirsi per essere divenuto il poeta ufficiale di corte. Si avviava ad essere il nuovo "Virgilio" estense che aveva celebrato la dinastia estense con la riproposizione nell'Orlando furioso delle vicende di Ruggiero e Bradamante che, come aveva narrato per primo Tito Vespasiano Strozzi nella sua Borsas, erano considerati i mitici progenitori degli Estensi. Fu anche per tal motivo che lo stesso duca Alfonso provvide ad acquistare tra il 1521 ed il 1525 circa sei esemplari della seconda edizione del poema che esaltava la sua nobile stirpe. Ferrara è tutto questo per Ariosto; però, essa è soprattutto il luogo dove può dedicarsi in totale tranquillità e libertà agli studi. Ferrara è il contesto ideale per godere dell'otium letterario. L'insofferenza ariostesca alle tenebre garfagnine nasce, allora, dall'aver perso la possibilità di vedere attuato, realizzato concretamente quel desiderio sempre pressante di "riveder le Muse" e con queste "ir poetando ancora". Solo in questo modo Ariosto può avere un "cor sereno" capace di far fiorire una "iocunda rima o metro", come afferma nella IV satira. Ritornando da dove siamo partiti possiamo ora sottolineare come a differenza di Orazio il poeta ferrarese conosca bene quale può essere il suo habitat naturale, ma più in generale, sa cosa gli assicurerebbe un bene vivere, una serenità ed un equilibrio interiori sempre rincorsi, ma mai raggiunti dal poeta latino. Ferrara rappresenta quel luogo ideale che Orazio vanamente cercò tra Roma e Tivoli. Forse perché, come sosteneva a suo tempo Walter Binni, «Orazio è troppo esplicitamente e programmaticamente maestro di saggezza poetica», mentre Ariosto risulta essere più spontaneo nel legare arte e vita, «mai troppo moralistico». Ma ci permettiamo di dissentire, in quanto la ricerca oraziana non è programmatica per raggiungere un bene vivere, ma consequenziale ad un male vivere: essa è un drammatico, umano tentativo di curare la propria angoscia. Ci sembra giusto chiudere la nostra riflessione sul rapporto tra luogo ed anima con una curiosità: sembra proprio che il destino si sia divertito a fare della Garfagnana la sede deputata da una parte a divenire il luogo dove tentare di ricostruire un "nido", quello pascoliano, e dall'altra il luogo che allontana un altro poeta, Ariosto appunto, dal suo "nido". Abbiamo così una prova inconfutabile che un luogo da solo non può determinare la felicità umana. In passato, questa volontà sempre dichiarata di voler rimanere nella suo "nido" ferrarese, che nasceva, come si è detto, dal sapere che solo lì Ludovico avrebbe potuto vedere materializzati la sua serenità, il suo equilibrio interiore, la sua autarkeia, sollevato da ogni incarico diplomatico e da ogni affanno della vita pratica, concentrato nell'assecondare le sue Muse e preoccupato unicamente ad evitare che "inondar lasci il mio studio a Lete" (I satira), è stata interpretata come pigrizia, sedentarietà, indolenza. Walter Binni sostiene che questa immagine bonaria, quasi "bonacciona" dell'Ariosto sia sorta già durante Rinascimento. La genesi di questa particolare identità ariostesca che, percorrendo i secoli quasi come un simulacro nel castello di Altante, è stata afferrata in ambito critico da più parti, andrebbe ricercata secondo Binni in quello che egli stesso definisce «un isolamento eccessivo del Furioso rispetto alle sottovalutate opere minori». Gli angoli anche più reconditi della complessa e persino complicata personalità ariostesca, dunque, andrebbero ricercati non solo e non tanto nel monumentale poema, ma soprattutto nelle opere in cui si avverte con maggiore evidenza il respiro autobiografico. Non v'è dubbio che le sette Satire rientrino in questo ambito di scrittura personale che può contribuire ad illuminare alcuni lati dell'interiorità del grande poeta; si ricordi, però, che le Satire sono pur sempre componimenti letterari, che rispondono a precise esigenze formali ed ideologiche, che seguono una «direzione artistico - poetica organicamente calcolata e ispirata»; in esse si passa dalle "occasioni" concrete che permettono la scrittura satirica alle generalizzazioni e, riprendendo Segre, si percepisce con chiarezza come «l'essenza autobiografica è una sola cosa con l'essenza moralistica». Nelle Lettere, ed in particolare in quelle del periodo garfagnino che nella corpus complessivo occupano lo spazio più rilevante, dal momento che Ariosto «non si impone un alto proposito artistico», il poeta tradisce senza filtro letterario le sue sofferenze interiori, le sue frustrazioni, i suoi umori più autentici; nelle Lettere accade che, come scrive ancora Segre, il risentimento morale, che nelle Satire è diluito necessariamente nell'«espressione più armoniosa e artisticamente valida», sfoci nelle Lettere in «ferita, grido». Lo stesso Croce sottovalutò l'impatto che il corpus delle Lettere avrebbe potuto avere nel giudizio complessivo dell'opera e della personalità ariostesca quando affermava che queste: «sono tutte d'affari, secche, sommarie e tirate in fretta, e solo qua e là, scoprono l'intimo dello scrivente»; anche Fatini, nel suo saggio Ludovico Ariosto prosatore , derubricava le stesse epistole ariostesche come costruite su «una prosa monotona e pesante», dove invano si potevano cercare squarci di «poesia». Il giudizio dei due critici era evidentemente di natura estetica, e poco interessato a scorgere Ludovico nelle epistole di Ariosto. Questa sostanziale indifferenza verso il corpus delle epistole (e più in generale verso le altre opere ariostesche "minori") aveva così portato ad un impoverimento del profilo umano di Ariosto, facendogli assumere unicamente, secondo la definizione del Binni, le sembianze dell'albatros di Baudelaire «goffo, impacciato, indifeso sulla tolda della nave», capace di essere possente e maestoso soltanto in volo sulle ali della poesia. Risulta decisivo ai fini di una rivalutazione della silloge epistolare ariostesca con la conseguente possibilità di arricchire di nuove sfumature il carattere del poeta, il ruolo svolto dalla nuova critica ariostesca, all'interno della quale ampi meriti vanno riconosciuti in primis al già citato Angelo Stella, curatore della nuova edizione delle Lettere, agli stessi Binni e Segre , senza dimenticare gli studi di Lanfranco Caretti. Solo attraverso questo rinnovato interesse verso le lettere ariostesche, si può definitivamente far crollare lo stereotipo dell'Ariosto «sedentario e contemplativo», di un personaggio che il De Sanctis inquadra come «colto, spensierato, pigro, tranquillo, legato alla sua quiete ed al suo "fuge rumores"», da collocare «nella scala de' Sancio Panza e de' Don Abbondio», e che ha attraversato senza soluzione di continuità secoli di esegesi ariostesca, arrivando fino alla famigerata etichetta di “Ludovico della tranquillità”, coniata da Antonio Baldini, il quale a sua volta l'aveva ricalcata su quella più nota, imposta a Giovanni Boccaccio da un suo contemporaneo (Johannes tranquillitatum).
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