CASA TELLIER
Traduzione
dall'edizione originale del 1881
Sono
state tirate di quest'opera 55 copie su carta a mano vergata di
Fabriano, rilegate in mezza tela e numerate a macchina, riservate
alla Libreria “La Margherita”.
STAMPATO
IN ITALIA
Documento,
libraio Editore in Roma – 1944
I
Andavano
là, ogni sera, verso le undici, semplicemente, come al caffé.
Si
riunivano in sei o sette, sempre gli stessi, non bontemponi, ma
uomini seri, commercianti, giovanotti delle città; e bevendo la
chartreuse
scherzavano
un po' con le ragazze, oppure discorrevano seriamente con la Madama,
che era rispettata da tutti.
Poi, prima di mezzanotte,ritornavano a dormire. Qualche
volta i giovani restavano.
Era una casa modesta,dipinta di giallo,
familiare,all'angolo di una strada dietro la Chiesa di Santo Stefano.
Dalle
finestre i scorgevano il pieno di bastimenti allo scarico, la grande
salina detta la Retenue
e dietro, la riva della Madonna con la sua vecchia cappella grigia.
Madama veniva da una brava famiglia di contadini del
dipartimento de l'Eure, e aveva accettato wuesta professione proprio
come se si sarebbe messa a fare la modista o la sarta. Il pregiudizio
del disonore unito alla prostituzione, così violento e vivo nelle
città, non esiste nella campagna normanna.
Il contadino dice:”E' un buon mestiere”, e manda suo
figlio a dirigere un harem di ragazze come lo manderebbe a dirigere
un pensionato di signorine.
Questa casa, del resto, l'avevano avuta in eredità da
un vecchio zio.
Il
Signore
e Madama,
un tempo albergatori vicini a yvetot, avevano immediatamente
liquidato, giudicando l'affare di Fécamp più vantaggioso per loro;
e un bel mattino erano arrivati a prendere la direzione dell'impresa
che pericolava in assenza dei padroni. Erano brave persone che si
fecero subito amare dai dipendenti e dai vicini.
Il Signore morì per una emorragia cerebrale due anni
dopo. La sua nuova professione lo costringeva alla pigrizia e
all'inerzia; divenuto troppo grasso, la salute lo aveva soffocato.
Rimasta vedova, Madama fu desiderata inutilmente da
tutti gli assidui della casa; ma si diceva fosse perfettamente
onesta, e le sue pensionanti stesse non erano riuscite a scoprire
nulla.
Era alta, prosperosa, piacente. La sua carnagione
impallidita nell'ombra della casa sempre chiusa, luccicava come sotto
una vernice grassa.
Una sottile frangia di capelli leggeri, finti e
arricciati, le circondava la fronte e le dava un aspetto giovanile
che stonava con la maturità delle sue forme.
Invariabilmente allegra, col viso sereno, e una
sfumatura di ritegno che le sue nuove occupazioni non avevano ancora
potuto farle perdere, ella scherzava volentieri. Le parole sconce
l'urtavano sempre on poco; e quando qualche giovanotto maleducato
chiamava con il suo preciso nome la casa che essa dirigeva, si
rivoltava indignata. Insomma aveva un'anima delicata, e benché
trattasse le sue ragazze come amiche, ripeteva volentieri che
essa”non era affatto della stessa covata”.
Qualche volta durante la settimana usciva in una vettura
di nolo con una parte della brigata, e andavano a fare il chiasso
sull'erba in riva ala fiumicello che scorre nelle campagne di
Valmont.
Erano
scampagnate di educande in libertà, corse folli, giuochi infantili,
felicità completa di recluse inebriate di aria libera. Mangiavano
roba fredda sui prati bevendo sidro, e ritornavano al cadere della
sera deliziosamente affaticate e dolcemente commosse, e nella e nella
vettura abbracciavano Madama come una buona mamma tenera e piena di
compiacenza.
La casa aveva due ingressi. Di sera, all'angolo della
strada, si apriva una specie di caffeuccio per la gente del popolo e
i marinai. Due delle ragazze occupate nello speciale commercio della
casa, erano destinate in modo particolare a questa parte della
clientela.
Con l'aiuto di un cameriere chiamato Federico, un
biondino imberbe, e robusto come un bove, esse servivano mezzine di
vino e bottiglie di birra sulle tavole di marmo traballanti, e con le
braccia al collo dei bevitori, sedute di traverso sulle loro gambe,
li spingevano a rinnovare le consumazioni.
Le tre altre signorine(non erano che cinque in tutto),
formavano una specie di aristocrazia riserbata ai clienti del primo
piano, a meno che tuttavia non si avesse bisogno di loro nel caffé,
e che al primo piano non vi fosse nessuno.
Il salone di Giove dove si riunivano i borghesi del
luogo, era tappezzato di carta azzurra e abbellito da un gran disegno
che rappresentava la Leda distesa sotto il cigno. Si arrivava in alla
casa da una scala in curva che finiva davanti a una porta stretta, di
modesta apparenza, aperta sulla strada, e sopra la quale brillava
tutta la notte, dietro una griglia, una piccola lanterna, come quelle
che si accendono ancora in alcune città, sotto le Madonne incastrate
nel muro.
La casa, umida e vecchia, odorava leggermente di muffa.
A intervalli un alito di acqua di Colonia passava nei corridoi, o
talvolta una porta semiaperta giù dal basso lasciava rimbombare in
tutta la casa, come un colpo di tuono,le grida plebee degli uomini
seduti a tavola a pian terreno, e faceva apparire sulla faccia dei
signori del primo piano una smorfia inquieta e disgustata.
Madama, cordiale con i clienti suoi amici, non usciva
dal salotto, e si interessava alle voci della città che le
arrivavano attraverso loro.
La sua sensata conversazione formava un diversivo alle
chiacchiere sconclusionate delle tre donne, era come un riposo fra il
celiare sboccato dei borghesi panciuti che si abbandonavano ogni sera
a questo onesto e mediocre libertinaggio di bere un bicchiere di
liquore in compagnia di ragazze pubbliche.
Le tre signorine del primo piano si chiamavano,
Fernanda, Raffaella, Rosa la rossa.
Le pensionanti essendo poche, si era cercato che ognuna
di loro fosse come un esemplare, il compendio di un tipo femminile,
in modo che ogni cliente potesse trovarvi la realizzazione
approssimativa del suo ideale.
Fernanda Rappresentava la bella bionda, molto alta,
quasi obesa,molle, figlia dei campi, con ostinate macchie di rossore
e con la capigliatura stopposa troppo corta, chiara e sbiadita,
simile a canapa pettinata, che non bastava a coprirle il cranio.
Raffaella, una marsigliese, una randagia dei porti,
recitava la parte indispensabile della bella ebrea, magra con zigomi
sporgenti impiastricciati di rossetto. Aveva capelli neri, lucidi di
midollo di bue, arricciati sulle tempie, e occhi che sarebbero
sembrati belli se il destro non fosse stato segnato da una macchia.
Il suo naso arcuato cadeva su di una mascella risentita
dove, in alto due denti falsi spiccavano vicini a quelli di sotto che
invecchiando avevano preso una tinta scura come di vecchio legno.
Rosa la rossa, una piccola palla di carne tutta pancia
con gambe minuscole, cantava da mattina a sera con voce rauca,
alternando strofette triviali e sentimentali, raccontava storie
interminabili e insignificanti, e non smetteva di parlare che per
mangiare e di mangiare che per parlare, sempre in moto, agile come
uno scoiattolo nonostante il suo grasso e le piccole zampe. Il suo
ridere, una cascata di grida acute, squillava continuamente qua e là,
in una stanza, nel granaio, del caffé, da per tutto, per un
nonnulla.
Le due donne del pianterreno, Luisa sopranominata Cocote
e Flora detta altalena perché zoppicava leggermente, l'una vestita
da “Libertà” con una cintura tricolore, l'altra vestita da
spagnola di fantasia, con zecchini di rame che le ciondolavano tra i
capelli color carota a ognuno dei suoi passi ineguali, sembravano due
sguattere vestite in maschera. Simili a tutte le donne del popolo, né
più belle né più brutte: vere serve d'albergo. Nel porto le
chiamavano le due Pompe.
Una pace mantenuta a fatica, ma raramente turbata,
regnava tra queste cinque donne, grazie alla conciliante saggezza di
Madama, e al suo perenne buon umore.
La casa, l'unica nella piccola città, era assiduamente
frequentata. Madama aveva saputo darle un tono così rispettabile, si
mostrava così amabile, così cortese con tutti, il suo buon cuore
era così conosciuto, che una specie di considerazione la circondava.
Gli assidui spendevano per lei,trionfanti quando
dimostrava loro un'amicizia più spiccata. Di giorno quando si
incontravano per i loro affari, si dicevano: “arrivederci a
stasera, dove sapete”, come si dice: “ allora dopo cena al caffè,
va bene?”.
Insomma casa Tellier era una risorsa e raramente
qualcuno mancava all'appuntamento quotidiano.
Ora, una sera, verso la fine del mese di maggio, il
primo arrivato, il signor Poulin, commerciante di legname e ex
sindaco, trovò la porta chiusa. La piccola lanterna dietro la
griglia era spenta, nessun rumore usciva dall'abitazione che sembrava
morta.
Bussò, prima piano, poi con forza, ma nessuno rispose.
Allora ripercorse la strada lentamente e arrivato sulla piazza del
Mercato, incontrò il signor Duvert, l'armatore, che stava andando
allo stesso posto. Vi ritornarono insieme senza risultato migliore.
Quando all'improvviso, un gran chiasso si levò vicinissimo a loro,
e, fatto il giro della casa, essi scorsero un gruppo di marinai
inglesi e francesi che battevano pugni sulle imposte chiuse del
caffè.
I due borghesi se la svignarono per non essere
compromessi;ma un debole psst li fece fermare: era il signor
Tournevau, il commerciante di pesce salato, che li aveva riconosciuti
e li chiamava.
Gli
raccontarono la faccenda di cui tanto più egli si afflisse che,
ammogliato, padre di famiglia, e molto sorvegliato, veniva soltanto
il sabato, sicuritatis causa diceva, facendo allusione ad un
provvedimento di polizia sanitaria di cui il dottor Borde, suo amico,
gli aveva svelato la periodicità. Era proprio la sua sera, e così
egli si vedeva deluso per tutta la settimana. I tre uomini fecero un
lungo giro fino alla banchina, e trovarono per strada il giovane
signor Philippe, figlio del banchiere, un assidua, e il signor
Pimpesse l'esattore delle imposte. Tutti insieme ritornarono allora
per la via “degli Ebrei” per fare un nuovo tentativo. Ma i
marinai esasperati assediavano la casa, gettavano pietre, urlavano; e
i cinque clienti del primo piano, tornando indietro al più presto
possibile, si misero a gironzolare per le strade.Incontrarono ancora
il signor Dupuis, l'agente di assicurazione, poi il signor Vasse,
giudice del tribunale di commercio; e cominciarono una lunga
passeggiata che andò a finire sul molo. Si sedettero in fila sul
parapetto di granito e guardarono le onde schiumeggianti. La schiuma
sulla cresta dei flutti, poneva nell'ombra un biancore luminoso,
spento non appena apparso;e il rumore monotono del mare che si
rompeva contro le rocce echeggiava nella notte lungo la scogliera.
Quando i melanconici bighelloni furono rimastsi là
qualche tempo, il signor Tourneveau dichiarò: “c'è poco da stare
allegri”.
“Davvero!” rispose il signor Pimpesse, e se ne
tornarono via lentamente. Dopo aver percorso la strada da cui si
domina la costa e che si chiama la via sotto il bosco, essi
ritornarono per il ponte di tavole sulla Retenue, passarono vicino
alla strada ferrata e sboccarono di nuovo sulla piazza del Mercato,
dove una disputa s'iniziò all'improvviso fra l'esattore, signor
Pimpesse, e il commerciante di pesce, signor Tournevau, a proposito
di un fungo commestibile che uno di loro affermava di aver trovato
nei dintorni. Gli animi erano inaspriti dalla noia, ed essi forse
sarebbero venuti alle mani, se altri non si fossero interposti.
Il signor Pimpesse se ne andò furioso; e quasi sibito
sorse un nuovo alterco tra ex sindaco signor Poulin e l'agente di
assicurazioni signor Dupuis, circa gli introiti dell'esattore e i
profitti che poteva trarre dall'esattoria.
Piovevano ingiurie dalle due parti, quando si scatenò
una tempesta formidabile di grida e il branco dei marinai, stanco di
attendere inutilmente davanti alla casa chiusa, sboccò sulla piazza.
Si tenevano a braccetto a due a due facendo una lunga
processione a schiamazzando furiosamente. Il gruppo dei borghesi si
nascose sotto una porta e l'orda, urlante disparve in direzione
dell'abbazia. Ancora per molto tempo si sentì il
vociare che diminuiva come un uragano che si allontana, poi il
silenzio si ristabilì.
Il signor Poulin e il signor Dupuis furiosi l'uno contro
l'altro,se ne andarono ciascuno dalla sua parte senza salutarsi.
Gli altri quattro si rimisero in marcia e ridiscesero
istintivamente verso casa Tellier. Era sempre chiusa e silenziosa,
impenetrabile. Un ubriaco, tranquillo, ostinato, batteva piccoli
colpi contro le poste del caffè poi si fermava per chiamare a mezza
voce il cameriere Federico. Vedendo che nessuno rispondeva risolse di
sedersi sullo scalino della porta, aspettando gli avvenimenti.
I
borghesi stavano per rincasare quando la banda tumultuosa degli
uomini del porto riapparve a capo della strada. I marinai francesi
sbraitavano la Marseillaise;
gli inglesi la Rule Britannia.
L'ondata dei bruti si ruppe contro la casa, poi riprese
il suo corso verso la banchina dove scoppiò una battaglia tra i
marinai delle due nazioni. Nella rissa, un inglese ebbe un braccio
rotto e il francese il naso spaccato.
L'ubriaco che era rimasto davanti alla porta, adesso
piangeva come piangono i beoni o i bambini contradetti. I borghesi
finalmente si dispersero.
A poco a poco si rifece sulla città la calma turbata.
Di piazza in piazza, ancora per qualche istante, si alzò il rumore
di voci, poi si spense in lontananza.
Solo un
uomo gironzolava sempre, il signor Tournevau, il commerciante di
pesce salato, afflitto di dover aspettare il prossimo sabato; egli
sperava chissà quale caso imprevisto, esasperato e senza capire,
perché la polizia lasciasse chiudere così una casa di pubblica
utilità, sorvegliata e tenuta sotto la sua tutela.
Vi ritornò rasente i muri,cercandone la ragione; e si
accorse che sull'imposta era incollato un cartello. Accese in fretta
un cerino e lesse queste parole tracciate con una larga e incerta
scrittura:”Chiuso per Prima Comunione”.
Allora si allontanò ben comprendendo che era finita.
Adesso l'ubriaco dormiva, steso quanto era lungo,
attraverso la porta inospitale.
Il giorno dopo, tutti gli assidui, l'uno dopo l'altro,
trovarono modo di passare per la strada, con fasci di carte sotto il
braccio, per darsi un contegno, e con uno sguardo furtivo ognuno
leggeva il misterioso avvertimento: “Chiuso Per Prima Comunione”.
II
Madama al suo paese natale, Virville nell'Eure, aveva un
fratello falegname.
Quando ella era ancora albergatrice a Yvetot aveva
tenuto a battesimo la figlia di questo fratello che chiamò Costanza,
Costanza Rivet, come lei era una Rivet da ragazza.
Il falegname che sapeva la sorella ben sistemata, non la
perdeva di vista benché non si incontrassero sovente, trattenuti
tutti e due dalle loro occupazioni e abitando del resto lontani l'uno
dall'altra. Ma quando la ragazzina ebbe quasi dodici anni, e
quell'anno dovette fare la Prima Comunione, egli colse
quest'occasione di riavvicinarsi, e scrisse a sua sorella che contava
su di lei per la cerimonia. I genitori erano morti, essa non poteva
rifiutarsi con la sua figlioccia: accettò.
Suo fratello, che si chiamava Giuseppe, sperava a forza
di premure di arrivare forse ad ottenere che facesse testamento in
favore della piccina, essendo Madama senza figli.
La professione di sua sorella non turbava i suoi
scrupoli, e del resto nessuno del paese sapeva nulla.
Si diceva solamente parlando di lei “Madama Tellier è
una borghese di Fécamp “ ciò che lasciava supporre ella potesse
viver di rendita.
Da Fécamp a Virville c'erano almeno venti leghe e per i
contadini venti leghe di strada erano più difficili da varcare di
quanto non sia l'oceano per un uomo civile.
La gente di Virville non aveva mai sorpassato Rouen;
nulla attirava quelli di Fécamp nel piccolo villaggio di cinquecento
famiglie sperso in mezzo alla pianura e facente parte di un altro
dipartimento. Insomma non si sapeva nulla.
Ma
l'epoca della comunione si avvicinava; Madama si trovò in un grande
imbarazzo. Non aveva una vice-padrona
,
non pensava affatto di lasciare la sua casa nemmeno per un giorno.
Tutte le rivalità fra le signorine del primo piano e quelle del
pianterreno scoppierebbero infallibilmente, poi Federico si
ubriacherebbe senza dubbio, e quando era ubriaco accoppava il
prossimo per un sì o per un no.
Da ultimo risolse di condurre tutti, eccetto il
cameriere che lasciò in libertà per due giorni.
Il fratello consultato non trovò nulla da ridire, e si
impegnò di alloggiare la compagnia per una notte. Dunque, al sabato
mattina, il treno espresso delle otto portò via Madama e le sue
compagne in un vagone di seconda classe.
Fino a Beuzeville furono sole, e chiacchierarono come
gazze. Ma a questa stazione montò una coppia. L'uomo, un vecchio
contadino, portava un acamiciotto azzurro increspato al collo con le
maniche larghe, strette ai polsi guarnite di un piccolo ricamo bianco
e una vecchia tuba dal pelo strinato e irto. Teneva in una mano un
immenso parapioggia verde, e dall'altra un grosso paniere da cui
sporgevano le teste spaurite di tre anitre. La moglie, impettita nei
suoi vestiti paesani, aveva una fisionomia di gallina, con un naso a
punta come un becco. Sedette di fronte al suo uomo e rimase immobile,
sorpresa di trovarsi in così bella compagnia.
Infatti,
vi era nello scompartimento, uno scintillio di colori sgargianti.
Madama tutta in azzurro, in seta azzurro dalla testa ai piedi, con
uno scialle di falso cachemire
francese, rosso, accecante, sfolgorante. Fernanda sbuffavain una
veste scozzese, col corpetto che allacciato a forza dalle sue
compagne le sollevava in una doppia cupola, il seno cadente sempre
agitato e come liquido sotto la stoffa. Raffaella con un cappello
piumato a forma di nido pieno di uccelli, portava un abito lilla,
guarnito di pagliette d'oro, qualcosa d'orientale che sii adattava
alla sua fisionomia di ebrea.
Rosa la rossa in sottana rosa a grandi gale aveva
l'aspetto di una bimba troppo grassa, d'una nana obesa, e le due
Pompe sembrava si fossero tagliate strane acconciature in vecchie
tende da finestra, quelle vecchie tende a fogliami dell'epoca della
Restaurazione.
Appena non furono più sole nello scompartimento, le
signorine presero un contegno grave e si misero a parlare di cose
importanti per dare buona opinione di se.
Ma a Bolbec, salì un signore con favoriti biondi,
anelli e catena d'oro, che mise nella rete sopra la testa parecchi
pacchi, avvolti in una tela cerata. Aveva un'aria burlona e da buon
ragazzo. Salutò sorrise e domandò con disinvoltura: “Le signorine
cambiano guarnigione?”. La domanda provocò nel gruppo confusione e
imbarazzo.
Madama infine, riprendendo la sua franchezza rispose
recisamente per vendicare l'onore del corpo: “Dovreste essere un
po' più cortese”. “Perdonate, volevo dire, cambiano monastero?”
Si scusò l'altro. Madama non trovando nulla da replicare, o forse
giudicando la rettifica sufficiente, fece un dignitoso saluto a
labbra strette.
Allora il signore, che si trovava seduto tra Rosa e il
vecchio contadino, si mise a strizzare l'occhio alle tre anitre che
spingevano la testa fuori del paniere. Poi quando sentì d'aver
conquistato il suo pubblico, cominciò a solleticare gli animali
sotto il becco facendo loro bizzarri discorsi per rallegrare la
compagnia.
“ Abbiamo lasciato il nostro pantanetto, qua! Qua!
Qua! per fare conoscenza con girarrostino, qua! qua! Qua!”.
I
disgraziati animali giravano il collo per evitare le sue carezze,
facevano sforzi terribili per uscire dalla loro prigione di vimini;
poi all'improvviso tutte e tre insieme cacciarono un lamentoso grido
di disperazione: Qua! Qua! Qua! Quà! Allora vi fu tra le donne
un'esplosione di grida. Prese da un pazzo interesse per le anitre, si
spingevano per vedere, e il signore raddoppiava le carezze, le
spiritosaggini, le moine.
Rosa si intromise, chinandosi sulle gambe del vicino,
baciò le tre bestie sul becco. Subito, ognuna volle baciarle a sua
volta, e il signore tenendo le signorine sulle ginocchia le faceva
saltellare, le pizzicava; improvvisamente diede loro del tu.
I due contadini, ancor più sbigottiti dei loro
volatili, stralunavano gli ochhi da invasati, senza osare fare un
movimento, e le vecchie facce rugose non avevano un sorriso, ne un
sussulto. Allora il signore, che era un commesso viaggiatore, offrì
per burla bretelle alle signorine e prendendo uno dei suoi
pacchi l'aprì.
Era uno scherzo, il pacchetto conteneva giarrettiere. Ve
ne erano di seta azzurra, di seta rosa, di seta rossa di seta
violetta di seta lilla di seta rosso fuoco, con fibbie di metallo
formate da due amorini abbracciati e dorati. Le ragazze mandarono
grida di gioia, poi esaminarono i campioni prese dalla serietà
naturale di ogni donna quando maneggia un oggetto d'ornamento.
Esse si consultavano con uno sguardo, con una parola
sottovoce, si rispondevano nello stesso modo, e Madama osservava con
desiderio un paio di giarrettiere arancione, più larghe, più
imponenti delle altre, vere giarrettiere da padrona.
Il signore aspettava meditando un'idea: “ su gattine
mie – disse - , bisogna provarle”.
Ci fu una tempesta di esclamazioni; ed esse stringevano
le sottane fra le gambe come se avessero temuto di essere violentate.
Lui tranquillo, attendeva il momento giusto. Dichiarò: “non
volete? Metto via tutto”. Poi con astuzia: “ Ne regalo un paio a
scelta a quelle che faranno la prova”. Ma loro non accettavano,
dignitosamente e impettite. Le due Pompe però sembravano così
infelici che egli rinnovò loro la proposta.
Flora altalena sopratutto, torturata dal desiderio,
esitava visibilmente. Egli la incalzava: “Avanti ragazza mia, un
po' di coraggio, prendi il paio lilla, starà bene col tuo vestito”.
Allora lei si risolse e alzando le sottane, mise in
mostra una massiccia gamba da bifolca, in una calza grossolana.
Il signore abbassandosi agganciò la giarrettiera sotto
il ginocchio prima, poi sopra, e solleticò lievemente la ragazza per
farle mandare piccole grida fra bruschi sobbalzi.
Quando ebbe finito, le regalò le giarrettiere lilla e
domandò: “ A chi tocca?”.
“ A me! A me!” gridarono tutte insieme. Cominciò
con Rosa la rossa che scoprì una cosa informe, rotonda senza
caviglia, un vero “salsicciotto di gamba” come diceva Raffaella.
Fernanda fu complimentata dal commesso viaggiatore, entusiasmato
dalle sue potenti colonne. Le magre tibie della bella israelita
ebbero meno successo. Luisa Cocote, per scherzo, incappucciò il
signore con le sottane, e Madama fu obbligata a intervenire per far
cessare questa burla sconveniente.
Da ultimo, Madama stessa tesa la gamba, una bella gamba
normanna grasa e muscolosa e il viaggiatore sorpreso e incantato si
tolse galantemente il cappello, da vero cavaliere francese, per
salutare questo polpaccio principe.
I due
contadini pietrificati dallo sbalordimento guardavano di traverso con
un occhio solo e assomigliavano talmente a due polli, che l'uomo dai
favoriti biondo alzandosi fece loro sotto il naso: “co-co-ri-co”.
Ciò che scatenò nuovamente un uragano di allegria. I due vecchi
discesero a Motteville, con paniere , anitre e parapioggia, e si udì
la moglie dire al suo uomo mentre si allontanavano: “sono altre
baldracche che se ne vanno in quella Parigi del diavolo!”.
Il gioviale commesso viaggiatore discese anche lui a
Rouen dopo di essersi mostrato così grossolano che Madama si vide
obbligata a rimetterlo aspramente al suo posto.
Come morale, essa aggiunse: “Impareremo così a
chiacchierare con il primo venuto”.
A Oissel, cambiarono cambiarono treno a alla stazione
seguente, trovarono Giuseppe Rivet che le aspettava con un grande
barroccio pieno di sedie, attaccato a un cavallo bianco. Il falegname
baciò cortesemente tutte le signore e le aiutò a salire ne
barroccio. Tre si misero sulle sedie in fondo, Raffaella, Madamae suo
fratello sulle tre sedie davanti e Rosa non avendo sedia, si piazzò
bene o male selle ginocchia della grande Fernanda, poi l'equipaggio
si mise in moto.
Ma appena il trotto irregolare del cavallino scosse
tanto forte il veicolo da far traballare le sedie, le viaggiatrici
furono gettate e a destra e sinistra con movimenti da fantoccio,
smorfie spaventate, grida di terrore, interrotte all'improvviso da
una scossa più forte.
Esse si aggrappavano alle sponde del veicolo, coi
capelli che cadevano sulla schiena, sul naso, su le spalle, e il
cavallo bianco seguitava ad andare allungando la testa, con la coda
dritta, una piccola coda di topo senza peli che egli, di tanto in
tanto si batteva sulle natiche. Giuseppe Rivet, un piede teso sulla
stanga, l'altra gamba ripiegata su di se, i gomiti alzati, teneva le
redini, e dalla golagli sfuggiva ogni momento una specie di gorgoglio
che faceva drizzare le orecchie e accelerare l'andatura del
cavallino.
Ai lati della strada si stendeva la campagna verde. Il
ravizzone fiorito metteva qua e là una grande macchia ondulata di
cui si levava un odore salubre e possente, un odore penetrante e
dolce, che il vento portava lontano. Nella segale già alta, i
fiordalisi mostravano le piccole teste azzurre; le donne avrebbero
voluto coglierli ma Rivet non volle fermarsi. Ogni tanto, un campo
era così pieno di papaveri che sembrava bagnato di sangue. E in
mezzo a questa distesa, che i fiori della terra coloravano, il
barroccio che sembrava portare anch'esso un mazzo di fiori dai colori
più ardenti,passava al trotto del cavallo bianco, spariva dietro i
grandi alberi di una fttoria, per riapparire oltre il fogliame e
portare a spasso di nuovo attraverso il raccolto giallo e verde,
picchiettato di rossoe di azzurro, questa sgargiante carrettata di
donne in fuga sotto il sole. Sonava l'una quando arrivarono davanti
alla casa del falegname. Erano sfinite dalla fatica e pallide di
fame, non avendo preso nulla da quando erano partite.
La signora Rivet accorse, le fece scendere l'una dopo
l'altra, baciandole appena toccavano terra. E non la finiva di
baciucchiare la cognata che desiderava accaparrarsi. Mangiarono nel
laboratorio già sbarazzato dai panconi per il pranzo del giorno
dopo. Una bella frittata seguita da un salsicciotto in gratella,
innaffiato da buon sidro frizzante, restituì l'allegria a tutti.
Rivet beveva e sua moglie serviva, cucinava, portava i piatti, li
toglieva, mormorava all'orecchio di ognuna: “Vi basta?”.
Dalle cataste di tavole appoggiate al muro e dai mucchi
di trucioli spazzati negli angoli, veniva un profumo di legno
piallato, un odore di falegnameria, quell'alito resinoso che penetra
fin nei polmoni.
Chiesero di vedere la piccola, ma essa era in chiesa e
non doveva tornare che la sera.
La
brigata allora uscì per fare un giro nel paese. Era un piccolo
villaggio attraversato dalla strada maestra. In una diecina di case
allineate lungo questa unica strada, vi erano i negozi; la
macelleria, la drogheria, il caffé, il ciabattino, il fornaio e il
falegname.
La chiesa in capo alla strada era circondata da un
angusto cimitero e quattro tigli altissimi piantati davanti al
portale, l0ombreggiavano completamente.
Era costruita in pietra da taglio, senza stile e
sormontata da un campanile di ardesia. Dietro, ricominciava la
campagna, interrotta qua e là da gruppi di alberi che nascondevano i
cascinali.
Rivet, cerimonioso, benché vestito da lavoro, aveva
preso il braccio di sua sorella e l'accompagnava con solennità. Sua
moglie, molto eccitata dalla veste e ricami d'oro di Raffaella, si
era messa tra lei e Fernanda. Dietro trottava Rosa grassoccia tra
Luisa Cocote e Flora Altalena che zoppicava estenuata. Gli abitanti
si affacciavano all'uscio, i bambini smettevano di giocare, dietro
una tenda sollevata si intravvedeva una testa coperta da una cuffia
di tela; una vecchia con la gruccia e quasi cieca, si segnò come
davanti a una processione, e tutti seguivano lungamente con lo
sguardo quelle belle signore della città che erano venute da così
lontano per la Prima Comunione della piccina di Giuseppe Rivet.
E un'immensa considerazione si riversava così sul
falegname.
Passando davanti alla chiesa sentirono cantare i
fanciulli; un cantico gridato al cielo da piccole voci acute; Madama
non volle si entrasse per non disturbare quei cherubini.
Dopo un giro nei campi, e dopo aver enumerato le
proprietà principali, il reddito della terra, la produzione del
bestiame, Giuseppe Rivet ricondusse in casa il suo branco di donne, e
le sistemò.
Il posto era poco e furono distribuite due a due nelle
camere. Rivet per una volta dormirebbe nel laboratorio sui trucioli,
sua moglie dividerebbe il letto con la cognata, e nella camera vicina
Fernanda e Raffaella dormirebbero insieme. Luisa e Flora furono messe
in cucina su un materasso disteso in terra mentre Rosa occupava da
sola un piccolo stanzino buio sopra la scala, di fronte all'entrata
di uno stretto soppalco dove avrebbe dormito per quella notte la
comunicanda.
Quando la fanciullina tornò fu coperta di baci; tutte
le donne volevano accarezzarla, per quel bisogno di tenera
espansione, e con quell'abitudine professionale alle moine, che in
treno le aveva spinte a baciare le anitre. Se la fecero sedere sulle
ginocchia, le accarezzarono i fini capelli biondi, la strinsero fra
le braccia con slanci d'affetto veemente e spontaneo. La bimba calma,
penetrata di fervore religioso come chiusa nell'assoluzione, lasciava
fare paziente e raccolta. La giornata era stata faticosa per tutti e
andarono a letto presto dopo cena. Quel silenzio sterminato dei
campi, che sembrava quasi religioso. Avvolgeva il piccolo villaggio,
un silenzio calmo, penetrante e alto sino alle stelle. Le ragazze
abituate alle serate tumultuose della casa pubblica, si sentivano
commosse da quel muto riposo della campagna addormentata.
Rabbrividivano ma non di freddo; erano brividi di
solitudine venuti dal cuore inquieto e turbato.
Non appena, due a due, furono a letto, si strinsero come
per difendersi contro questo straripare del calmo e profondo sonno
della terra. Ma Rosa la rossa, sola nello stanzino buio,poco abituata
a dormire a braccia vuote, si sentì afferrata da un'emozione vaga e
penosa. Si rivoltava nel suo giaciglio senza poter prender sonno,
quando, sentì, dietro il tramezzo di legno contro la sua testa, un
debole singhiozzare come se un bambino piangesse. Sbigottita chiamò
piano, e una vocina singhiozzante le rispose. Era la bimba che,
dormendo sempre nella camera di sua madre, aveva paura in quello
stretto soppalco.
Rosa, felice, si alzò e piano piano per non svegliare
nessuno, andò a prendere la bambina. Se la portò nel suo letto ben
caldo, la strinse sul petto e la baciò, la cullò, l'avvolse nella
sua tenerezza fatta di manifestazioni esagerate, poi calmata anche
lei, s'addormentò. E fino al mattino la comunicanda riposò con la
fronte sul petto nudo della prostituta.
Alle cinque, All'Angelus, la piccola campana della
chiesa, sonando a distesa svegliò quelle signorine che abitualmente
dormivano tutta la mattina, per riposarsi delle fatiche notturne. I
contadini, nel villaggio, erano già in piedi. Le donne del paese
affaccendate andavano di porta in porta chiacchierando vivacemente,
portando in mano con precauzione corte vesti inamidate di mussola,
rigide come cartone, o ceri smisurati con un nodo di seta a frangia
d'oro nel mezzo, e fregi nel punto dove reggerli. Il sole già alto
raggiava in un cielo azzurro che conservava all'orizzonte una tinta
rosea, come una debole traccia di aurora. Famiglie di polli
passeggiavano davanti ai pollai; e qua e là un gallo nero dal collo
lucente alzava il capo coperto di porpora, batteva le ali e gettava
al vento il suo canto di rame che altri galli ripetevano.
Arrivavano carrette dai vicini comuni, scaricando alla
soglia delle porte le alte donne normanne in abito scura con i
fazzoletti incrociati sul pettoe trattenuti da un secolare gioiello
d'argento. Gli uomini avevano infilato il camiciotto azzurro sulla
finanziera nuova o sopra la vecchia marsina di panno verde, con le
falde che ne ciondolavano fuori.
Quando i cavalli furono in scuderia, vi fu così lungo
la strada principale una doppia fila di carrettoni coperti, carrette,
calessi, tilbursys, barrocci, vetture di tutte le forme e di
tutte le epoche piegate in avanti o rovesciate indietro con le
stanghe in aria.
La casa del falegname era piena di un'attività
d'alveare. Le signore in copribusto e sottana di sotto, i capelli
sparsi sulla schiena, capelli radi e corti che si sarebbero detti
opachi e corrosi dall'uso, erano occupate a vestire la bambina.
La piccola in piedi sulla tavola, non si muoveva, mentre
la signora Tellier dirigeva i movimenti del suo battaglione volante.
Le lavarono la faccia, la pettinarono, l'acconciarono, la vestirono,
e con una quantità di spille misero a posto le pieghe della veste,
strinsero la vita troppo larga, vollero darle una certa eleganza.
Poi quando ebbero finito, fecero sedere la paziente
raccomandandole di non muoversi più; e tutte quelle donne
affaccendate corsero a prepararsi anche loro.
La piccola chiesa cominciava a sonare. Il gracile
tintinnio di campana povera, saliva e si perdeva attraverso il cielo
come una veste troppo debole, presto sommersa nell'immensità
dell'azzurro.
Le comunicande uscivano dalle porte, andavano verso
l'edificio comunale che comprendeva le due scuole e il municipio
situato in fondo al paese, mentre “la Casa di Dio” occupava
l'altro capo.
I genitori vestiti a festa con una fisionomia goffa e
quei movimenti maldestri di corpi sempre piegati sul lavoro,
seguivano i loro bimbi.
Le ragazzine sparivano in una nube di tulle candido come
panna montata, mentre i ragazzi, simili ad embrioni di camerieri, la
testa impiastricciata di pomata, camminavano a gambe larghe per non
macchiare i calzoni neri.
Era una gloria per la famiglia quando un gran numero di
parenti venuti da lontano circondava il bambino, così il trionfo di
Rivet fu completo. Il reggimento Tellier, con la padrona in testa,
seguiva Costanza; il padre dando il braccio alla sorella, la madre
camminando al fianco di Raffaella, Fernanda con Rosa, e le due Pompe
insieme sfilarono maestosamente come uno stato maggiore in grande
uniforme.
L'effetto nel villaggio fu folgorante.
Alla scuola, le ragazze si misero in fila dietro la
cuffia della suorae i maschietti dietro il cappello del maestro, un
bell'uomo che faceva figura, e si mossero intonando un cantico. Per
primi avanzavano i ragazzi in due file tra la doppia riga delle
vetture staccate; seguivano le bambine nello stesso ordine; e perché
tutti gli abitanti avevano per rispetto ceduto il passo alle signore
della città, esse venivano così immediatamente dopo le piccole,
prolungando ancora la doppia fila della processione, tre a destra e
tre a sinistra, con le loro vesti sgargianti come un mazzo di fuochi
d'artificio.
Il loro ingresso nella chiesa fece perdere la testa alla
popolazione. Si stringevano, si voltavano, si spingevano per vederle.
I devoti parlavano quasi ad alta voce stupefatti per lo spettacolo di
queste signore che avevano più fronzoli di un piviale di canonico.
Il sindaco offerse il suo banco, il primo banco a destra vicino al
coro, e la signora Tellier vi prese posto con la cognata, Fernanda e
Raffaella; Rosa la rossa e le due Pompe occuparono il secondo banco
insieme col falegname.
Il coro della chiesa era zeppo di ragazzi in ginocchio,
le fanciulle da un lato e i maschietti dall'altro, e i lunghi ceri
che tenevano in mano, sembravanolance inclinate in ogni senso.
Davanti al leggio, tre uomini in piedi cantavano a voce
spiegata, prolungando all'infinito le sillabe del latino sonoro,
eternando gli Amen im lunghissimi a-a che il serpentone accompagnava
con la sua noto monotona, tenuta senza fine, nel muggito della lunga
gola di rame. La voce acuta di un ragazzo rispondeva di tanto in
tanto, un prete seduto in uno stallo col nicchio in capo, si alzava,
borbottava qualche cosa e sedeva di nuovo, mentre i tre cantori
riattaccavano, l'occhio fisso sul grosso libro del canto fermo aperto
davanti a loro, ed appoggiato sulle ali tese di un'aquila di legno
fissata a un trespolo.
Poi si fece silenzio, tutti i presenti si misero in
ginocchio, apparve il celebrante, vecchio venerabile coi capelli
bianchi, curvo sul calice che portava sulla sinistra. Davanti a lui
camminavano i due chierichetti in abito rosso e dietro una folla di
cantori con grosse scarpe, che si allinearono ai due lati del coro.
Una campanella tintinnò in mezzo a una grande silenzio.
L'ufficio divino incominciava. L'officiante si muoveva lentamente
davanti al tabernacolo dorato, si genufletteva, salmodiava le
preghiere preparatorie, con voce rotta, tremante di vecchiaia.
Appena tacque, tutti i cantori e il serpentone
proruppero insieme; anche in chiesa qualche uomo cantava con voce
meno forte, più umile, come devono cantare i fedeli. Improvvisamente
il Kyrie Eleison salì verso il cielo, sgorgato da tutti i
petti e da tutti i cuori. Caddero perfino polvere e pezzetti di legno
tarlato dall'antico soffitto, scosso da questa esplosione di voci. Il
sole che batteva sulle ardesie del tetto, infovcava la piccola chiesa
come una fornace,e una grande emozione, un'attesa ansiosa, preludio
dell'ineffabile mistero, stringeva il cuore dei fanciulli, serrava la
gola delle loro madri.
Il prete che si era un poco seduto, salì l'altare e con
la testa nuda, coperta di capelli d'argento, e con gesti tremuli si
avvicinò all'atto soprannaturale.
Si volse verso i fedeli, e a braccia aperte, pronunciò
l'Orate Frates, pregate fratelli.
Tutti pregavano. Il vecchio curato balbettava adesso a
bassa voce le parole misteriose e supreme: la campanella tintinnò a
più riprese; la folla prosternata chiamava Dio; i ragazzi si
sentivano mancare di un'ansia sconfinata.
Fu allora che Rosa, con la fronte tra le mani, ricordò
di colpo sua madre, la chiesa del villaggio, la sua prima comunione.
Le parve di essere ritornata a quel giorno, quando era tanto piccola,
sperduta nella sua veste bianca, e si mise a piangere. Dapprima
piano, piano; le lacrime le cadevano lente dalle palpebre, poi con i
ricordi, la sua emozione aumentò, e col collo gonfio, il petto
palpitante, ella si mise a singhiozzare. Aveva tirato fuori il
fazzoletto, e si asciugava gli occhi, si premeva il naso e la bocca
per non gridare, ma fu inutile, una specie di rantolo le uscì dalla
gola; le risposero due altri sospiri, profondi, strazianti; le sue
due vicine, Luisa e Flora, prostrate accanto a lei, strette dagli
stessi ricordi, gemevano anche loro fra torrenti di lacrime. Ma il
pianto è contagioso: Madama a sua volta, si sentì presto le
palpebre umide e volgendosi verso la cognata vide che tutto il suo
banco piangeva.
Il prete creava il corpo di Dio. I ragazzi non pensavano
più, prostrati da una specie di religiosa paura sulle lastre di
pietra; qua e là nella chiesa, una moglie, una madre, una sorella,
presa dalla strana suggestione che viene dalle emozioni strazianti,
turbata anche dalla vista di quelle belle signore in ginocchio scosse
da brividi e da singhiozzi, bagnava il suo fazzoletto a scacchi e con
la mano sinistra si premeva forte il cuore che sussultava. Come una
favilla di fuoco, caduta sulla messe matura, il pianto di Rosa e
delle sue compagne si comunicò in un attimo a tutta la folla.
Uomini, donne, vecchi, ragazzi in camiciotto nuovo,
tutti in breve singhiozzarono, e sulle loro teste parve librarsi
qualche cosa di sovrumano, uno spirito che incombeva, l'alito
prodigioso di un essere invisibile e onnipotente.
Allora nel coro della chiesa risonò un piccolo colpo
secco: la suora battendo sul suo libro dava il segnale della
Comunione e i fanciulli tremando d'una febbre divina si avvicinarono
alla Sacra Mensa.
Se ne inginocchiò tutta una fila. Il vecchio curato
tenendo in mano il ciborio d'argento dorato, passava davanti a loro
porgendo ad uno ad uno tra le due dita, l'Ostia consacrata, il Corpo
di Cristo, la redenzione del mondo. Essi aprivano la bocca con
spasimo, con una contrazione nervosa, gli occhi chiusi e il viso
pallidissimo; la lunga tovaglia distesa sotto il loro mento
ondeggiava come acqua corrente.
Improvvisamente, nella chiesa corse una specie di
follia, un rumore di popolo in delirio, una tempesta di singhiozzi e
di grida soffocate. Passò, come quelle ventate che piegano le
foreste; mentre il prete restava in piedi immobile con l'Ostia in
mano paralizzato dall'emozione.
“E Dio – diceva fra se – Dio che manifesta la sua
presenza fra di noi, che discende alla mia preghiera sul suo popolo
inginocchiato”.
E balbettava invocazioni smarrite senza trovare le
parole, invocazioni dell'anima in uno slancio violento verso il
cielo.
Incominciò a distribuire la Comunione con una tale
esaltazione di fede che le gambe quasi gli si piegavano,e quando lui
ebbe bevuto il Sangue del suo Signore, si perse in un atto estatico
di ringraziamento.
Dietro a lui il popolo a poco a poco si calmava. I
cantori,che spiccavano nella dignità della cotta bianca, ripresero
il canto con voce meno sicura e ancora umida, e anche la voce del
serpentone sembrava rauca come se esso pure avesse pianto.
Allora il prete alzando le mani, fece loro segno di
tacere, e passando tra le due file di comunicandi assorti in
un'estasi di felicità, si avanzò fino alla balaustra del coro.
La gente sedeva fra i rumori di seggiole, mentre tutti
ora, si soffiavano forte il naso. Quando videro il curato fecero
silenzio ed egli cominciò a parlare con voce molto bassa, esitante,
velata.
“Miei cari fratelli, mie care sorelle, ragazzi miei,
vi ringrazio dal fondo del cuore: mi avete datola più grande gioia
della mia vita. Ho sentito Dio scendere su di noi al mio richiamo.
Egli è venuto, era qui presente, empiva le vostre anime, faceva
traboccare le vostre lacrime. Sono il prete più vecchio della
diocesi e oggi anche il più felice. E' accaduto un miracolo fra noi,
un vero, un grande, un sublime miracolo! Mentre Gesù Cristo entrava
per la prima volta in questi fanciulli, lo Spirito Santo, la Colomba
celeste, il Soffio di Dio è sceso su di voi, vi ha commossi,
afferrati, piegati come canne sotto la brezza”.
Poi con voce calma, volgendosi verso i due banchi dove
si trovavano le invitate del falegname: “ Grazie sopratutto a voi,
mie care sorelle, che siete venute così di lontano, la cui presenza,
la cui fede aperta, la pietà così viva, sono state per tutti un
esempio salutare.
Voi siete l'edificazione della mia parrocchia, la vostra
emozione ha infiammato i cuori, senza di voi, forse, questo gran
giorno non avrebbe avuto questa impronta veramente divina. Basta a
volte una sola pecora eletta perché il Signore discenda sul suo
gregge”.
La voce gli mancava. Aggiunse: “E' questa la grazia
che vi auguro. E così sia”.
Risalì sull'altare per terminare la funzione.
Ora la gente aveva premura di andar via. I ragazzi
stessi cominciavano ad agitarsi stanchi di una così lunga tensione
d'animo. D'altronde, avevano fame e i genitori a poco a poco se ne
andavano, per finire i preparativi del pranzo senza aspettare
l'ultimo vangelo.
All'uscita vi fu ressa, una ressa rumorosa, un frastuono
di voci stridule dove cantava l'accento normanno.
La popolazione formava siepe ai due lati e, quando
apparvero i ragazzi, ogni famiglia si precipitò sul suo.
Costanza si trovò afferrata, circondata, baciata da
tutta quella parentela di femmine. Rosa sopratutto non smetteva di
stringerla. Infine prese una mano, la signora Tellier si impadronì
dell'altra, Raffaella e Fernanda sollevarono la sua lunga sottana di
mussola perché non strascicasse nella polvere. Luisa e Flora con la
signora Rivet chiudevano il corteo e la bimba raccolta e penetrata
dal Dio che portava in se si mise in cammino fra questa scorta
d'onore. Il banchetto era apparecchiato nel laboratorio, sopra lunghe
tavole appoggiate sui cavalletti.
La porta aperta sulla strada lasciava entrare l'allegria
di tutto il villaggio. Da per tutto si banchettava. In tutte la case
si vedevano tavolate di gente vestita a festa, e si udivano uscir le
grida delle famiglie in baldoria. I contadini, in maniche di camicia,
bevevano sidro puro a bicchierini colmi, e in ognuna di quelle
brigate si vedevano due ragazzi, due bimbe o due maschietti, invitati
in una delle due famiglie riunite.
Ogni tanto, sotto il caldo pesante del mezzogiorno, un
carro attraversava il paese al trotto balzellante di un vecchio
cavalluccio, e l'uomo in camiciotto che guidava, gettava uno sguardo
d'invidia su tutto quel ben di Dio in mostra.
Nella casa del falegname, l''allegria conservava una
certa aria di riservatezza, un resto dell'emozione del mattino.
Soltanto Rivet era eccitato e beveva esageratamente. La signora
Tellier guardava di continuo l'ora, perché se non voleva far vacanza
due giorni di seguito, doveva prendere il treno delle quindici e
cinquantacinque per arrivare a Fécamp verso sera.
Il falegname si sforzava con ogni mezzo di distrarla per
trattenere le sue invitate sino al giorno dopo; ma Madama non si
lasciava divagare; non scherzava mai quando si trattava di affari.
Appena preso il caffè diede ordine alle sue pensionanti
di preparasi in fretta, poi voltandosi verso suo fratello disse:
“Tu vai subito ad attaccare”, ed anche lei andò a
terminare i suoi ultimi preparativi.
Quando discese, la cognata l'attendeva per parlare della
piccina, e parlarono a lungo insieme, ma non conclusero nulla di
definitivo. La contadina giocava d'astuzia, falsamente intenerita, e
la signora Tellier, che teneva la bambina selle ginocchia, non si
impegnava a nulla prometteva vagamente: sì, se ne occuperebbe della
bambina, c'era tempo, del resto si sarebbero riviste.
Intanto il barroccio non arrivava e le donne non
scendevano e si sentivano al piano di sopra a ridere, urtarsi,
gridare, batter le mani. Allora, mentre la moglie del falegname
andava nella scuderia per vedere se il barroccio era pronto, Madama,
alla fine, salì al primo piano.
Rivet, parecchio ubriaco e mezzo svestito, cercava
inutilmente di violentare Rosa che veniva meno dal ridere. Le due
Pompe lo tenevano per le braccia e tentavano di calmarlo, indignate
di questa scena dopo la cerimonia del mattino; ma Raffaella e
Fernanda lo incitavano e ridendo come pazze si tenevano i fianchi e
lanciavano acuti strilli a ogni sforzo dell'ubriaco. Furibondo, con
la faccia rossa, completamente sbottonato, l'uomo scoteva
violentemente le due donne aggrappate a lui e con tutte le sue forze
tirava la gonna di Rosa barbugliando.
“Non vuoi sporcacciona?”.
Madama, indignata, afferrò suo fratello per le spalle e
lo gettò fuori così violentemente che lo mandò a sbattere contro
il muro.
Un minuto dopo, lo si sentì nel cortile pomparsi
l'acqua sulla testa; e quando tornò col barroccio era completamente
calmato.
Si rimisero in moto come alla vigilia e il cavallino
bianco ripartì con la su andatura rapida e briosa. Sotto iul sole
ardente, l'allegria, assopita durante il pranzo, si risvegliò.
Adesso le ragazze si divertivano alle scosse del barroccio,
spingevano le sedie l'una contro l'altra scoppiando continuamente a
ridere, ancora eccitate dai vani tentativi di Rivet.
Una luce violenta copriva i campi, una luce che
abbagliava e le ruote sollevavano due scie di polvere che volteggiava
a lungo sulla via maestra dietro al veicolo.
A un tratto, Fernanda, che amava la musica, pregò Rosa
di cantare, e Rosa intonò vigorosamente “ Il grosso curato di
Mendon”.
Madama la fece immediatamente tacere perché questa
canzone le sembrava poco adatta in un giorno come quello. Aggiunse:
“Canta piuttosto qualche cosa di Béranger”.
Allora Rosa, dopo aver esitato un attimo, si risolse e
con voce frustata cominciò la “Nonna”.
Una
sera nel dì della sua festa,
di
vino schietto bevuto due dita,
mia
nonna disse scuotendo la testa:
quanti
amorosi ho avuto in mia vita!
Come
rimpiango il braccio paffuto,
la
gamba ben fatta
e
il tempo perduto!
E il coro delle ragazze che Madama stessa guidava,
riprese:
Come
rimpiango il braccio paffuto,
la
gamba ben fatta e il tempo perduto!
“Questa sì che è buona “ dichiarò Rivet, eccitato
dal ritmo, e Rosa continuò:
Ma
come, saggia non siete stata?
No,
certamente! Delle mie grazie
a
quindici anni conobbi l'uso
ché
non dormivo la notte davvero!
Tutti insieme urlarono il ritornello e Rivet batteva il
piede sulla stanga, batteva il tempo con le redini sul dorso del
cavallino bianco, che, come trasportato anche lui dalla foga del
ritmo, spiccò il galoppo tempestosi, mandando le signorine a cadere
in mucchio le une sulle altre in fondo al barroccio.
S rialzarono ridendo come pazze. E la canzone continuò,
gridata a squarciagola attraverso la campagna, sotto il cielo
ardente, in mezzo ai raccolti che maturavano, al galoppo furioso del
cavallino che adesso, ad ogni ripresa del ritornello, si impennava e
si ostinava ad accompagnarlo con cento metri di galoppo con gran
divertimento di tutti.
Di tanto in tanto, qualche spaccapietre si raddrizzava e
guardava attraverso la maschera di filo di ferro quel barroccio
indiavolato e urlante trascinato in una nube di polvere.
Quando scesero davanti alla stazione il falegname si
intenerì:
“E' un peccato che andiate via, ci si sarebbe
divertiti”.
Madama gli rispose giudiziosamente:
“Ogni cosa a suo tempo, non si può sempre
divertirsi”.
Allora un'idea illuminò il cervello di Rivet.
“Benissimo, verrò a farvi una visita a Fécamp, il
mese prossimo”.
E guardò Rosa con aria furba e con occhio acceso e
sguaiato.
“Va bene – concluse Madama – ma bisignerà essere
ragionevole, se vuoi venire, verrai, ma niente stupidaggini”. Egli
non rispose, e poiché si sentiva il fischio del treno si mise
immediatamente ad abbracciare tutte le ragazze. Quando toccò a Rosa,
si ostinò a cercarle la bocca che lei, ridendo a labbra chiuse, gli
negava ogni volta con un rapido scarto di fianco.
Egli la stringeva per le braccia ma non riusciva a
raggiungere lo scopo, impacciato dalla lunga frusta che aveva tenuto
in mano e che nei suoi sforzi agitava disperatamente dietro le spalle
della ragazza.
“I viaggiatori per Rouen in vettura!” gridava
l'impiegato. Esse salirono. Si udì il sibilo del fischietto, subito
seguito da quello potente della macchina, che mandò fuori
rumorosamente un primo getto di vapore, mentre le ruote cominciarono
a girare adagio con visibile sforzo.
Rivet uscì dalla stazione, corse allo steccato per
vedere ancora una volta Rosa; e quando il vagone pieno di quella
mercanzia umana passò davanti a lui, si mise a schioccare la frusta
e a ballare cantando con tutte le sue forze:
Come
rimpiango il braccio paffuto,
la
gamba ben fatta
e
il tempo perduto!
Poi
rimase a guardare un fazzoletto bianco che si allontanava.
III
Dormirono
tutte, fino all'arrivo, il pacifico sonno delle coscienze
soddisfatte. E quando rientrarono in casa fresche e riposate per il
lavoro di ogni sera, Madama non poté trattenersi dal dire:
“Eppure,
sentivo già la mancanza della casa”.
Cenarono
in fretta e indossata nuovamente la tenuta da battaglia, attesero i
clienti abituali; e la piccola lanterna da tabernacolo, avvertì i
passanti che il gregge era rientrato all'ovile.
In
un batter d'occhio la notizia si sparse, non si sa come, e per mezzo
di chi. Il signor Philippe, il figlio del banchiere, spinse la
cortesia fino a informare con un espresso il signor Tournevau,
prigioniero in famiglia. Il commerciante di pesce salato aveva ogni
domenica parecchi cugini a cena; bevevano il caffè quando si
presentò un uomo con una lettera in mano. Il signor Tournevau molto
emozionato aprì la busta e impallidì: non v'erano che queste parole
scritte a lapis:
“Carico
di merluzzo ritrovato; bastimento rientrato in porto; ottimo affare
per voi. Venite subito”.
Si
frugò in tasca, regalò venti centesimi all'uomo che l'aveva portato
e arrossendo improvvisamente sino alle orecchie disse:
“Bisogna
che esca”.
E
tese alla moglie il misterioso e laconico biglietto. Dopo suonò e
quando apparve la donna di servizio:
“Presto
– disse -, presto il soprabito e il cappello”.
Appena
nella strada si mise a correre zufolando un'arietta, e la via gli
parve due volte più lunga tanto era la sua impazienza.
Casa
Tellier aveva un'aria di festa. A piano terreno le voci chiassose
degli uomini del porto facevano un assordante baccano. Luisa e Flora
non sapevano a chi dar retta, bevevano con l'uno e bevevano con
l'altro, meritando più che mai il nomignolo di Pompe. Le chiamavano
da ogni parte nello stesso tempo e già non potevano più supplire al
lavoro; la notte si annunciava faticosa.
Il
cenacolo del primo piano fu al completo verso le nove.
Il
signor Vasse, il giudice del tribunale di commercio, lo spasimente in
titolo ma platonico, di Madama, parlava con lei a bassa voce in un
angolo e si sorridevano come vicini a concludere un accordo. Il
signor Puolin, l'ex sindaco, teneva Rosa a cavalcioni sulle gambe e
lei, a faccia a faccia con lui, passava le sue mani tozze nei
favoriti bianchi del bonomo. Un pezzo di coscia nuda usciva dalla
gonna di seta gialla rialzata, spiccando sul panno nero dei calzoni e
le calze rosse erano fermate dalle giarrettiere azzurre, regalo del
commesso viaggiatore.
La
grande Fernanda, distesa sul divano, poggiava i piedi sul ventre del
signor Pimpesse, l'esattore delle imposte, e il busto sul panciotto
del signor Philippe, cingendogli il collo con la mano destra,mentre
nella sinistra teneva la sigaretta.
Raffaella
sembrava in trattative col signor Dupuis, l'agente di assicurazioni e
finì il discorso con queste parole:
“Si
bello mio, questa sera ne ho voglia”.
Poi
facendo un rapido giro di valzer attraverso il salotto gridò:
“Questa
sera tutto ciò che volete”.
Si
aprì improvvisamente la porta e apparve il signor Tournevau.
Esplosero
grida di entusiasmo.
“Viva
Tournevau!”:
E
Raffaella che piroettava sempre, andò a cadere sul suo petto. Egli
l'afferrò, la strinse in un formidabile abbraccio e senza dire una
parola la sollevò da terra come una piuma, attraversò il salotto,
raggiunse la porta in fondo, e tra gli applausi, disparve su per la
scala delle camere, col suo fardello vivente.
Rosa
occupata ad eccitare l'ex sindaco, baciandolo e ribaciandolo e
tirandogli i favoriti per tenergli ritta la testa, approfittò
dell'esempio:
“Andiamo,
fa come lui” gli disse. Allora il brav'uomo si alzò e
accomodandosi il panciotto seguì la ragazza, frugandosi nella tasca
dove dormiva il denaro.
Fernanda
e Madama rimasero sole con i quattro uomini.
“Pago
lo champagne!” gridò il signor Philippe. “Signora Tellier,
mandatene a prendere tre bottiglie!”: Fernanda abbracciandolo gli
chiese in un orecchio:
“Senti,
ci vuoi far ballare?”.
Egli
si alzò e sedendosi davanti alla secolare spinetta addormentata in
un angolo, fece uscire un valzer, un valzer roco e piagnucoloso, dal
ventre gemente dello strumento.
La
grossa ragazza abbracciò l'esattore delle imposte, Madama si
abbandonò nelle braccia del signor Vasse, e le coppie volteggiarono
scambiandosi baci.
Il
signor Vasse che aveva un tempo ballato in società, faceva il
grazioso e Madama lo guardava con occhio benigno, quell'occhio che
dice “sì”, un “sì” più discreto e più deliziosi di
qualunque parola.
Federico
portò lo champagne. Il primo tappo partì e il signor Philippe
attaccò il preludio di una quadriglia.
I
quattro ballerini lo eseguirono con eleganza, con dignità, come si
deve, cerimoniosamente fra inchini e saluti. Dopo di che si misero a
bere.
Allora
riapparve il signor Tournevau soddisfatto, sollevato, radioso.
Esclamò: “Non so cosa abbia fatto Raffaella, ma questa sera è
perfetta!”.
E
poiché gli avevano offerto un bicchiere di champagne lo vuotò in un
sorso mormorando:
“Perbacco
che lusso!”.
Immediatamente
il signor Philippe attaccò una polca vivace, e il signor Tournevau
si slanciò con la bella ebrea, tenendola sospesa, senza lasciarle
toccare i piedi in terra.
Il
signor Pimpesse e il signor Vasse avevano ripreso a ballare con nuovo
slancio. Di tanto in tanto una delle coppie si fermava vicino al
caminetto per tracannare un calice di vino spumeggiante, e il ballo
sembrava non dover più finire, quando Rosa, con un candeliere in
mano aprì la porta. Era spettinata, in camicia e pantofole,
eccitatissima e rossa.
“Voglio
ballare anch'io” gridò.
“E
il tuo vecchio?” domandò Raffaella.
“Dorme
già, lui dorme subito”, rispose Rosa ridendo sguaiatamente.
Afferrò
il signor Dupuis rimasto inoperoso sul divano e la polca ricominciò.
Ma le bottiglie erano vuote.
“Ne
pago una io!” dichiarò il signor Tournevau.
“Anch'io!”,
annunciò il signor Vasse.
“Altrettanto
io!”, concluse il signor Dupuis.
Allora
tutti applaudirono.
Il
ballo si organizzava; diventava un vero ballo. Di tanto in tanto,
anche Luisa e Flora salivano in fretta, facevano rapidamente un giro
di valzer mentre i loro clienti in basso si impazientivano, poi esse
ritornavano correndo nel caffè col cuore gonfio di rimpianto.
A
mezzanotte ballavano ancora. Talvolta una ragazza spariva e quando la
si cercava per una quadriglia, ci si accorgeva improvvisamente che
anche uno degli uomini mancava.
“Da
dove venite?” chiedeva scherzando il signor Philippe proprio nel
momento in cui il signor Pimpesse rientrava con Fernanda.
“Da
veder dormire Poulin”, rispose l'esattore delle imposte.
Lo
scherzo ebbe un successo enorme e tutti a turno salirono con l'una o
l'altra signorina, che quella notte erano in una compiacenza
inaudita, per vedere dormire Poulin. Madama chiudeva un occhio; essa
aveva negli angoli del salotto lunghi colloqui col signor Vasse, come
se dovessero stabilire gli ultimi particolari di un affare già
fissato.
Finalmente
all'una, i due ammogliati, il signor Tournevau e il signor Pimpesse,
dovettero andarsene e vollero regolare il conto.
Fu
calcolato solo lo champagne e per di più a sei franchi la bottiglia
invece che a dieci, prezzo solito.
E
poiché essi si meravigliavano di questa generosità, Madama
raggiante rispose:
“Non
è festa tutti i giorni”.
Finito
di stampare
il
21 Marzo 1944 nello stabilimento A: Staderini
via
Baccina, 45
Roma
CASA TELLIER
Traduzione
dall'edizione originale del 1881
Sono
state tirate di quest'opera 55 copie su carta a mano vergata di
Fabriano, rilegate in mezza tela e numerate a macchina, riservate
alla Libreria “La Margherita”.
STAMPATO
IN ITALIA
Documento,
libraio Editore in Roma – 1944
I
Andavano
là, ogni sera, verso le undici, semplicemente, come al caffé.
Si
riunivano in sei o sette, sempre gli stessi, non bontemponi, ma
uomini seri, commercianti, giovanotti delle città; e bevendo la
chartreuse
scherzavano
un po' con le ragazze, oppure discorrevano seriamente con la Madama,
che era rispettata da tutti.
Poi, prima di mezzanotte,ritornavano a dormire. Qualche
volta i giovani restavano.
Era una casa modesta,dipinta di giallo,
familiare,all'angolo di una strada dietro la Chiesa di Santo Stefano.
Dalle
finestre i scorgevano il pieno di bastimenti allo scarico, la grande
salina detta la Retenue
e dietro, la riva della Madonna con la sua vecchia cappella grigia.
Madama veniva da una brava famiglia di contadini del
dipartimento de l'Eure, e aveva accettato wuesta professione proprio
come se si sarebbe messa a fare la modista o la sarta. Il pregiudizio
del disonore unito alla prostituzione, così violento e vivo nelle
città, non esiste nella campagna normanna.
Il contadino dice:”E' un buon mestiere”, e manda suo
figlio a dirigere un harem di ragazze come lo manderebbe a dirigere
un pensionato di signorine.
Questa casa, del resto, l'avevano avuta in eredità da
un vecchio zio.
Il
Signore
e Madama,
un tempo albergatori vicini a yvetot, avevano immediatamente
liquidato, giudicando l'affare di Fécamp più vantaggioso per loro;
e un bel mattino erano arrivati a prendere la direzione dell'impresa
che pericolava in assenza dei padroni. Erano brave persone che si
fecero subito amare dai dipendenti e dai vicini.
Il Signore morì per una emorragia cerebrale due anni
dopo. La sua nuova professione lo costringeva alla pigrizia e
all'inerzia; divenuto troppo grasso, la salute lo aveva soffocato.
Rimasta vedova, Madama fu desiderata inutilmente da
tutti gli assidui della casa; ma si diceva fosse perfettamente
onesta, e le sue pensionanti stesse non erano riuscite a scoprire
nulla.
Era alta, prosperosa, piacente. La sua carnagione
impallidita nell'ombra della casa sempre chiusa, luccicava come sotto
una vernice grassa.
Una sottile frangia di capelli leggeri, finti e
arricciati, le circondava la fronte e le dava un aspetto giovanile
che stonava con la maturità delle sue forme.
Invariabilmente allegra, col viso sereno, e una
sfumatura di ritegno che le sue nuove occupazioni non avevano ancora
potuto farle perdere, ella scherzava volentieri. Le parole sconce
l'urtavano sempre on poco; e quando qualche giovanotto maleducato
chiamava con il suo preciso nome la casa che essa dirigeva, si
rivoltava indignata. Insomma aveva un'anima delicata, e benché
trattasse le sue ragazze come amiche, ripeteva volentieri che
essa”non era affatto della stessa covata”.
Qualche volta durante la settimana usciva in una vettura
di nolo con una parte della brigata, e andavano a fare il chiasso
sull'erba in riva ala fiumicello che scorre nelle campagne di
Valmont.
Erano
scampagnate di educande in libertà, corse folli, giuochi infantili,
felicità completa di recluse inebriate di aria libera. Mangiavano
roba fredda sui prati bevendo sidro, e ritornavano al cadere della
sera deliziosamente affaticate e dolcemente commosse, e nella e nella
vettura abbracciavano Madama come una buona mamma tenera e piena di
compiacenza.
La casa aveva due ingressi. Di sera, all'angolo della
strada, si apriva una specie di caffeuccio per la gente del popolo e
i marinai. Due delle ragazze occupate nello speciale commercio della
casa, erano destinate in modo particolare a questa parte della
clientela.
Con l'aiuto di un cameriere chiamato Federico, un
biondino imberbe, e robusto come un bove, esse servivano mezzine di
vino e bottiglie di birra sulle tavole di marmo traballanti, e con le
braccia al collo dei bevitori, sedute di traverso sulle loro gambe,
li spingevano a rinnovare le consumazioni.
Le tre altre signorine(non erano che cinque in tutto),
formavano una specie di aristocrazia riserbata ai clienti del primo
piano, a meno che tuttavia non si avesse bisogno di loro nel caffé,
e che al primo piano non vi fosse nessuno.
Il salone di Giove dove si riunivano i borghesi del
luogo, era tappezzato di carta azzurra e abbellito da un gran disegno
che rappresentava la Leda distesa sotto il cigno. Si arrivava in alla
casa da una scala in curva che finiva davanti a una porta stretta, di
modesta apparenza, aperta sulla strada, e sopra la quale brillava
tutta la notte, dietro una griglia, una piccola lanterna, come quelle
che si accendono ancora in alcune città, sotto le Madonne incastrate
nel muro.
La casa, umida e vecchia, odorava leggermente di muffa.
A intervalli un alito di acqua di Colonia passava nei corridoi, o
talvolta una porta semiaperta giù dal basso lasciava rimbombare in
tutta la casa, come un colpo di tuono,le grida plebee degli uomini
seduti a tavola a pian terreno, e faceva apparire sulla faccia dei
signori del primo piano una smorfia inquieta e disgustata.
Madama, cordiale con i clienti suoi amici, non usciva
dal salotto, e si interessava alle voci della città che le
arrivavano attraverso loro.
La sua sensata conversazione formava un diversivo alle
chiacchiere sconclusionate delle tre donne, era come un riposo fra il
celiare sboccato dei borghesi panciuti che si abbandonavano ogni sera
a questo onesto e mediocre libertinaggio di bere un bicchiere di
liquore in compagnia di ragazze pubbliche.
Le tre signorine del primo piano si chiamavano,
Fernanda, Raffaella, Rosa la rossa.
Le pensionanti essendo poche, si era cercato che ognuna
di loro fosse come un esemplare, il compendio di un tipo femminile,
in modo che ogni cliente potesse trovarvi la realizzazione
approssimativa del suo ideale.
Fernanda Rappresentava la bella bionda, molto alta,
quasi obesa,molle, figlia dei campi, con ostinate macchie di rossore
e con la capigliatura stopposa troppo corta, chiara e sbiadita,
simile a canapa pettinata, che non bastava a coprirle il cranio.
Raffaella, una marsigliese, una randagia dei porti,
recitava la parte indispensabile della bella ebrea, magra con zigomi
sporgenti impiastricciati di rossetto. Aveva capelli neri, lucidi di
midollo di bue, arricciati sulle tempie, e occhi che sarebbero
sembrati belli se il destro non fosse stato segnato da una macchia.
Il suo naso arcuato cadeva su di una mascella risentita
dove, in alto due denti falsi spiccavano vicini a quelli di sotto che
invecchiando avevano preso una tinta scura come di vecchio legno.
Rosa la rossa, una piccola palla di carne tutta pancia
con gambe minuscole, cantava da mattina a sera con voce rauca,
alternando strofette triviali e sentimentali, raccontava storie
interminabili e insignificanti, e non smetteva di parlare che per
mangiare e di mangiare che per parlare, sempre in moto, agile come
uno scoiattolo nonostante il suo grasso e le piccole zampe. Il suo
ridere, una cascata di grida acute, squillava continuamente qua e là,
in una stanza, nel granaio, del caffé, da per tutto, per un
nonnulla.
Le due donne del pianterreno, Luisa sopranominata Cocote
e Flora detta altalena perché zoppicava leggermente, l'una vestita
da “Libertà” con una cintura tricolore, l'altra vestita da
spagnola di fantasia, con zecchini di rame che le ciondolavano tra i
capelli color carota a ognuno dei suoi passi ineguali, sembravano due
sguattere vestite in maschera. Simili a tutte le donne del popolo, né
più belle né più brutte: vere serve d'albergo. Nel porto le
chiamavano le due Pompe.
Una pace mantenuta a fatica, ma raramente turbata,
regnava tra queste cinque donne, grazie alla conciliante saggezza di
Madama, e al suo perenne buon umore.
La casa, l'unica nella piccola città, era assiduamente
frequentata. Madama aveva saputo darle un tono così rispettabile, si
mostrava così amabile, così cortese con tutti, il suo buon cuore
era così conosciuto, che una specie di considerazione la circondava.
Gli assidui spendevano per lei,trionfanti quando
dimostrava loro un'amicizia più spiccata. Di giorno quando si
incontravano per i loro affari, si dicevano: “arrivederci a
stasera, dove sapete”, come si dice: “ allora dopo cena al caffè,
va bene?”.
Insomma casa Tellier era una risorsa e raramente
qualcuno mancava all'appuntamento quotidiano.
Ora, una sera, verso la fine del mese di maggio, il
primo arrivato, il signor Poulin, commerciante di legname e ex
sindaco, trovò la porta chiusa. La piccola lanterna dietro la
griglia era spenta, nessun rumore usciva dall'abitazione che sembrava
morta.
Bussò, prima piano, poi con forza, ma nessuno rispose.
Allora ripercorse la strada lentamente e arrivato sulla piazza del
Mercato, incontrò il signor Duvert, l'armatore, che stava andando
allo stesso posto. Vi ritornarono insieme senza risultato migliore.
Quando all'improvviso, un gran chiasso si levò vicinissimo a loro,
e, fatto il giro della casa, essi scorsero un gruppo di marinai
inglesi e francesi che battevano pugni sulle imposte chiuse del
caffè.
I due borghesi se la svignarono per non essere
compromessi;ma un debole psst li fece fermare: era il signor
Tournevau, il commerciante di pesce salato, che li aveva riconosciuti
e li chiamava.
Gli
raccontarono la faccenda di cui tanto più egli si afflisse che,
ammogliato, padre di famiglia, e molto sorvegliato, veniva soltanto
il sabato, sicuritatis causa diceva, facendo allusione ad un
provvedimento di polizia sanitaria di cui il dottor Borde, suo amico,
gli aveva svelato la periodicità. Era proprio la sua sera, e così
egli si vedeva deluso per tutta la settimana. I tre uomini fecero un
lungo giro fino alla banchina, e trovarono per strada il giovane
signor Philippe, figlio del banchiere, un assidua, e il signor
Pimpesse l'esattore delle imposte. Tutti insieme ritornarono allora
per la via “degli Ebrei” per fare un nuovo tentativo. Ma i
marinai esasperati assediavano la casa, gettavano pietre, urlavano; e
i cinque clienti del primo piano, tornando indietro al più presto
possibile, si misero a gironzolare per le strade.Incontrarono ancora
il signor Dupuis, l'agente di assicurazione, poi il signor Vasse,
giudice del tribunale di commercio; e cominciarono una lunga
passeggiata che andò a finire sul molo. Si sedettero in fila sul
parapetto di granito e guardarono le onde schiumeggianti. La schiuma
sulla cresta dei flutti, poneva nell'ombra un biancore luminoso,
spento non appena apparso;e il rumore monotono del mare che si
rompeva contro le rocce echeggiava nella notte lungo la scogliera.
Quando i melanconici bighelloni furono rimastsi là
qualche tempo, il signor Tourneveau dichiarò: “c'è poco da stare
allegri”.
“Davvero!” rispose il signor Pimpesse, e se ne
tornarono via lentamente. Dopo aver percorso la strada da cui si
domina la costa e che si chiama la via sotto il bosco, essi
ritornarono per il ponte di tavole sulla Retenue, passarono vicino
alla strada ferrata e sboccarono di nuovo sulla piazza del Mercato,
dove una disputa s'iniziò all'improvviso fra l'esattore, signor
Pimpesse, e il commerciante di pesce, signor Tournevau, a proposito
di un fungo commestibile che uno di loro affermava di aver trovato
nei dintorni. Gli animi erano inaspriti dalla noia, ed essi forse
sarebbero venuti alle mani, se altri non si fossero interposti.
Il signor Pimpesse se ne andò furioso; e quasi sibito
sorse un nuovo alterco tra ex sindaco signor Poulin e l'agente di
assicurazioni signor Dupuis, circa gli introiti dell'esattore e i
profitti che poteva trarre dall'esattoria.
Piovevano ingiurie dalle due parti, quando si scatenò
una tempesta formidabile di grida e il branco dei marinai, stanco di
attendere inutilmente davanti alla casa chiusa, sboccò sulla piazza.
Si tenevano a braccetto a due a due facendo una lunga
processione a schiamazzando furiosamente. Il gruppo dei borghesi si
nascose sotto una porta e l'orda, urlante disparve in direzione
dell'abbazia. Ancora per molto tempo si sentì il
vociare che diminuiva come un uragano che si allontana, poi il
silenzio si ristabilì.
Il signor Poulin e il signor Dupuis furiosi l'uno contro
l'altro,se ne andarono ciascuno dalla sua parte senza salutarsi.
Gli altri quattro si rimisero in marcia e ridiscesero
istintivamente verso casa Tellier. Era sempre chiusa e silenziosa,
impenetrabile. Un ubriaco, tranquillo, ostinato, batteva piccoli
colpi contro le poste del caffè poi si fermava per chiamare a mezza
voce il cameriere Federico. Vedendo che nessuno rispondeva risolse di
sedersi sullo scalino della porta, aspettando gli avvenimenti.
I
borghesi stavano per rincasare quando la banda tumultuosa degli
uomini del porto riapparve a capo della strada. I marinai francesi
sbraitavano la Marseillaise;
gli inglesi la Rule Britannia.
L'ondata dei bruti si ruppe contro la casa, poi riprese
il suo corso verso la banchina dove scoppiò una battaglia tra i
marinai delle due nazioni. Nella rissa, un inglese ebbe un braccio
rotto e il francese il naso spaccato.
L'ubriaco che era rimasto davanti alla porta, adesso
piangeva come piangono i beoni o i bambini contradetti. I borghesi
finalmente si dispersero.
A poco a poco si rifece sulla città la calma turbata.
Di piazza in piazza, ancora per qualche istante, si alzò il rumore
di voci, poi si spense in lontananza.
Solo un
uomo gironzolava sempre, il signor Tournevau, il commerciante di
pesce salato, afflitto di dover aspettare il prossimo sabato; egli
sperava chissà quale caso imprevisto, esasperato e senza capire,
perché la polizia lasciasse chiudere così una casa di pubblica
utilità, sorvegliata e tenuta sotto la sua tutela.
Vi ritornò rasente i muri,cercandone la ragione; e si
accorse che sull'imposta era incollato un cartello. Accese in fretta
un cerino e lesse queste parole tracciate con una larga e incerta
scrittura:”Chiuso per Prima Comunione”.
Allora si allontanò ben comprendendo che era finita.
Adesso l'ubriaco dormiva, steso quanto era lungo,
attraverso la porta inospitale.
Il giorno dopo, tutti gli assidui, l'uno dopo l'altro,
trovarono modo di passare per la strada, con fasci di carte sotto il
braccio, per darsi un contegno, e con uno sguardo furtivo ognuno
leggeva il misterioso avvertimento: “Chiuso Per Prima Comunione”.
II
Madama al suo paese natale, Virville nell'Eure, aveva un
fratello falegname.
Quando ella era ancora albergatrice a Yvetot aveva
tenuto a battesimo la figlia di questo fratello che chiamò Costanza,
Costanza Rivet, come lei era una Rivet da ragazza.
Il falegname che sapeva la sorella ben sistemata, non la
perdeva di vista benché non si incontrassero sovente, trattenuti
tutti e due dalle loro occupazioni e abitando del resto lontani l'uno
dall'altra. Ma quando la ragazzina ebbe quasi dodici anni, e
quell'anno dovette fare la Prima Comunione, egli colse
quest'occasione di riavvicinarsi, e scrisse a sua sorella che contava
su di lei per la cerimonia. I genitori erano morti, essa non poteva
rifiutarsi con la sua figlioccia: accettò.
Suo fratello, che si chiamava Giuseppe, sperava a forza
di premure di arrivare forse ad ottenere che facesse testamento in
favore della piccina, essendo Madama senza figli.
La professione di sua sorella non turbava i suoi
scrupoli, e del resto nessuno del paese sapeva nulla.
Si diceva solamente parlando di lei “Madama Tellier è
una borghese di Fécamp “ ciò che lasciava supporre ella potesse
viver di rendita.
Da Fécamp a Virville c'erano almeno venti leghe e per i
contadini venti leghe di strada erano più difficili da varcare di
quanto non sia l'oceano per un uomo civile.
La gente di Virville non aveva mai sorpassato Rouen;
nulla attirava quelli di Fécamp nel piccolo villaggio di cinquecento
famiglie sperso in mezzo alla pianura e facente parte di un altro
dipartimento. Insomma non si sapeva nulla.
Ma
l'epoca della comunione si avvicinava; Madama si trovò in un grande
imbarazzo. Non aveva una vice-padrona
,
non pensava affatto di lasciare la sua casa nemmeno per un giorno.
Tutte le rivalità fra le signorine del primo piano e quelle del
pianterreno scoppierebbero infallibilmente, poi Federico si
ubriacherebbe senza dubbio, e quando era ubriaco accoppava il
prossimo per un sì o per un no.
Da ultimo risolse di condurre tutti, eccetto il
cameriere che lasciò in libertà per due giorni.
Il fratello consultato non trovò nulla da ridire, e si
impegnò di alloggiare la compagnia per una notte. Dunque, al sabato
mattina, il treno espresso delle otto portò via Madama e le sue
compagne in un vagone di seconda classe.
Fino a Beuzeville furono sole, e chiacchierarono come
gazze. Ma a questa stazione montò una coppia. L'uomo, un vecchio
contadino, portava un acamiciotto azzurro increspato al collo con le
maniche larghe, strette ai polsi guarnite di un piccolo ricamo bianco
e una vecchia tuba dal pelo strinato e irto. Teneva in una mano un
immenso parapioggia verde, e dall'altra un grosso paniere da cui
sporgevano le teste spaurite di tre anitre. La moglie, impettita nei
suoi vestiti paesani, aveva una fisionomia di gallina, con un naso a
punta come un becco. Sedette di fronte al suo uomo e rimase immobile,
sorpresa di trovarsi in così bella compagnia.
Infatti,
vi era nello scompartimento, uno scintillio di colori sgargianti.
Madama tutta in azzurro, in seta azzurro dalla testa ai piedi, con
uno scialle di falso cachemire
francese, rosso, accecante, sfolgorante. Fernanda sbuffavain una
veste scozzese, col corpetto che allacciato a forza dalle sue
compagne le sollevava in una doppia cupola, il seno cadente sempre
agitato e come liquido sotto la stoffa. Raffaella con un cappello
piumato a forma di nido pieno di uccelli, portava un abito lilla,
guarnito di pagliette d'oro, qualcosa d'orientale che sii adattava
alla sua fisionomia di ebrea.
Rosa la rossa in sottana rosa a grandi gale aveva
l'aspetto di una bimba troppo grassa, d'una nana obesa, e le due
Pompe sembrava si fossero tagliate strane acconciature in vecchie
tende da finestra, quelle vecchie tende a fogliami dell'epoca della
Restaurazione.
Appena non furono più sole nello scompartimento, le
signorine presero un contegno grave e si misero a parlare di cose
importanti per dare buona opinione di se.
Ma a Bolbec, salì un signore con favoriti biondi,
anelli e catena d'oro, che mise nella rete sopra la testa parecchi
pacchi, avvolti in una tela cerata. Aveva un'aria burlona e da buon
ragazzo. Salutò sorrise e domandò con disinvoltura: “Le signorine
cambiano guarnigione?”. La domanda provocò nel gruppo confusione e
imbarazzo.
Madama infine, riprendendo la sua franchezza rispose
recisamente per vendicare l'onore del corpo: “Dovreste essere un
po' più cortese”. “Perdonate, volevo dire, cambiano monastero?”
Si scusò l'altro. Madama non trovando nulla da replicare, o forse
giudicando la rettifica sufficiente, fece un dignitoso saluto a
labbra strette.
Allora il signore, che si trovava seduto tra Rosa e il
vecchio contadino, si mise a strizzare l'occhio alle tre anitre che
spingevano la testa fuori del paniere. Poi quando sentì d'aver
conquistato il suo pubblico, cominciò a solleticare gli animali
sotto il becco facendo loro bizzarri discorsi per rallegrare la
compagnia.
“ Abbiamo lasciato il nostro pantanetto, qua! Qua!
Qua! per fare conoscenza con girarrostino, qua! qua! Qua!”.
I
disgraziati animali giravano il collo per evitare le sue carezze,
facevano sforzi terribili per uscire dalla loro prigione di vimini;
poi all'improvviso tutte e tre insieme cacciarono un lamentoso grido
di disperazione: Qua! Qua! Qua! Quà! Allora vi fu tra le donne
un'esplosione di grida. Prese da un pazzo interesse per le anitre, si
spingevano per vedere, e il signore raddoppiava le carezze, le
spiritosaggini, le moine.
Rosa si intromise, chinandosi sulle gambe del vicino,
baciò le tre bestie sul becco. Subito, ognuna volle baciarle a sua
volta, e il signore tenendo le signorine sulle ginocchia le faceva
saltellare, le pizzicava; improvvisamente diede loro del tu.
I due contadini, ancor più sbigottiti dei loro
volatili, stralunavano gli ochhi da invasati, senza osare fare un
movimento, e le vecchie facce rugose non avevano un sorriso, ne un
sussulto. Allora il signore, che era un commesso viaggiatore, offrì
per burla bretelle alle signorine e prendendo uno dei suoi
pacchil'aprì.
Era uno scherzo, il pacchetto conteneva giarrettiere. Ve
ne erano di seta azzurra, di seta rosa, di seta rossa di seta
violetta di seta lilla di seta rosso fuoco, con fibbie di metallo
formate da due amorini abbracciati e dorati. Le ragazze mandarono
grida di gioia, poi esaminarono i campioni prese dalla serietà
naturale di ogni donna quando maneggia un oggetto d'ornamento.
Esse si consultavano con uno sguardo, con una parola
sottovoce, si rispondevano nello stesso modo, e Madama osservava con
desiderio un paio di giarrettiere arancione, più larghe, più
imponenti delle altre, vere giarrettiere da padrona.
Il signore aspettava meditando un'idea: “ su gattine
mie – disse - , bisogna provarle”.
Ci fu una tempesta di esclamazioni; ed esse stringevano
le sottane fra le gambe come se avessero temuto di essere violentate.
Lui tranquillo, attendeva il momento giusto. Dichiarò: “non
volete? Metto via tutto”. Poi con astuzia: “ Ne regalo un paio a
scelta a quelle che faranno la prova”. Ma loro non accettavano,
dignitosamente e impettite. Le due Pompe però sembravano così
infelici che egli rinnovò loro la proposta.
Flora altalena sopratutto, torturata dal desiderio,
esitava visibilmente. Egli la incalzava: “Avanti ragazza mia, un
po' di coraggio, prendi il paio lilla, starà bene col tuo vestito”.
Allora lei si risolse e alzando le sottane, mise in
mostra una massiccia gamba da bifolca, in una calza grossolana.
Il signore abbassandosi agganciò la giarrettiera sotto
il ginocchio prima, poi sopra, e solleticò lievemente la ragazza per
farle mandare piccole grida fra bruschi sobbalzi.
Quando ebbe finito, le regalò le giarrettiere lilla e
domandò: “ A chi tocca?”.
“ A me! A me!” gridarono tutte insieme. Cominciò
con Rosa la rossa che scoprì una cosa informe, rotonda senza
caviglia, un vero “salsicciotto di gamba” come diceva Raffaella.
Fernanda fu complimentata dal commesso viaggiatore, entusiasmato
dalle sue potenti colonne. Le magre tibie della bella israelita
ebbero meno successo. Luisa Cocote, per scherzo, incappucciò il
signore con le sottane, e Madama fu obbligata a intervenire per far
cessare questa burla sconveniente.
Da ultimo, Madama stessa tesa la gamba, una bella gamba
normanna grasa e muscolosa e il viaggiatore sorpreso e incantato si
tolse galantemente il cappello, da vero cavaliere francese, per
salutare questo polpaccio principe.
I due
contadini pietrificati dallo sbalordimento guardavano di traverso con
un occhio solo e assomigliavano talmente a due polli, che l'uomo dai
favoriti biondo alzandosi fece loro sotto il naso: “co-co-ri-co”.
Ciò che scatenò nuovamente un uragano di allegria. I due vecchi
discesero a Motteville, con paniere , anitre e parapioggia, e si udì
la moglie dire al suo uomo mentre si allontanavano: “sono altre
baldracche che se ne vanno in quella Parigi del diavolo!”.
Il gioviale commesso viaggiatore discese anche lui a
Rouen dopo di essersi mostrato così grossolano che Madama si vide
obbligata a rimetterlo aspramente al suo posto.
Come morale, essa aggiunse: “Impareremo così a
chiacchierare con il primo venuto”.
A Oissel, cambiarono cambiarono treno a alla stazione
seguente, trovarono Giuseppe Rivet che le aspettava con un grande
barroccio pieno di sedie, attaccato a un cavallo bianco. Il falegname
baciò cortesemente tutte le signore e le aiutò a salire ne
barroccio. Tre si misero sulle sedie in fondo, Raffaella, Madamae suo
fratello sulle tre sedie davanti e Rosa non avendo sedia, si piazzò
bene o male selle ginocchia della grande Fernanda, poi l'equipaggio
si mise in moto.
Ma appena il trotto irregolare del cavallino scosse
tanto forte il veicolo da far traballare le sedie, le viaggiatrici
furono gettate e a destra e sinistra con movimenti da fantoccio,
smorfie spaventate, grida di terrore, interrotte all'improvviso da
una scossa più forte.
Esse si aggrappavano alle sponde del veicolo, coi
capelli che cadevano sulla schiena, sul naso, su le spalle, e il
cavallo bianco seguitava ad andare allungando la testa, con la coda
dritta, una piccola coda di topo senza peli che egli, di tanto in
tanto si batteva sulle natiche. Giuseppe Rivet, un piede teso sulla
stanga, l'altra gamba ripiegata su di se, i gomiti alzati, teneva le
redini, e dalla golagli sfuggiva ogni momento una specie di gorgoglio
che faceva drizzare le orecchie e accelerare l'andatura del
cavallino.
Ai lati della strada si stendeva la campagna verde. Il
ravizzone fiorito metteva qua e là una grande macchia ondulata di
cui si levava un odore salubre e possente, un odore penetrante e
dolce, che il vento portava lontano. Nella segale già alta, i
fiordalisi mostravano le piccole teste azzurre; le donne avrebbero
voluto coglierli ma Rivet non volle fermarsi. Ogni tanto, un campo
era così pieno di papaveri che sembrava bagnato di sangue. E in
mezzo a questa distesa, che i fiori della terra coloravano, il
barroccio che sembrava portare anch'esso un mazzo di fiori dai colori
più ardenti,passava al trotto del cavallo bianco, spariva dietro i
grandi alberi di una fttoria, per riapparire oltre il fogliame e
portare a spasso di nuovo attraverso il raccolto giallo e verde,
picchiettato di rossoe di azzurro, questa sgargiante carrettata di
donne in fuga sotto il sole. Sonava l'una quando arrivarono davanti
alla casa del falegname. Erano sfinite dalla fatica e pallide di
fame, non avendo preso nulla da quando erano partite.
La signora Rivet accorse, le fece scendere l'una dopo
l'altra, baciandole appena toccavano terra. E non la finiva di
baciucchiare la cognata che desiderava accaparrarsi. Mangiarono nel
laboratorio già sbarazzato dai panconi per il pranzo del giorno
dopo. Una bella frittata seguita da un salsicciotto in gratella,
innaffiato da buon sidro frizzante, restituì l'allegria a tutti.
Rivet beveva e sua moglie serviva, cucinava, portava i piatti, li
toglieva, mormorava all'orecchio di ognuna: “Vi basta?”.
Dalle cataste di tavole appoggiate al muro e dai mucchi
di trucioli spazzati negli angoli, veniva un profumo di legno
piallato, un odore di falegnameria, quell'alito resinoso che penetra
fin nei polmoni.
Chiesero di vedere la piccola, ma essa era in chiesa e
non doveva tornare che la sera.
La
brigata allora uscì per fare un giro nel paese. Era un piccolo
villaggio attraversato dalla strada maestra. In una diecina di case
allineate lungo questa unica strada, vi erano i negozi; la
macelleria, la drogheria, il caffé, il ciabattino, il fornaio e il
falegname.
La chiesa in capo alla strada era circondata da un
angusto cimitero e quattro tigli altissimi piantati davanti al
portale, l0ombreggiavano completamente.
Era costruita in pietra da taglio, senza stile e
sormontata da un campanile di ardesia. Dietro, ricominciava la
campagna, interrotta qua e là da gruppi di alberi che nascondevano i
cascinali.
Rivet, cerimonioso, benché vestito da lavoro, aveva
preso il braccio di sua sorella e l'accompagnava con solennità. Sua
moglie, molto eccitata dalla veste e ricami d'oro di Raffaella, si
era messa tra lei e Fernanda. Dietro trottava Rosa grassoccia tra
Luisa Cocote e Flora Altalena che zoppicava estenuata. Gli abitanti
si affacciavano all'uscio, i bambini smettevano di giocare, dietro
una tenda sollevata si intravvedeva una testa coperta da una cuffia
di tela; una vecchia con la gruccia e quasi cieca, si segnò come
davanti a una processione, e tutti seguivano lungamente con lo
sguardo quelle belle signore della città che erano venute da così
lontano per la Prima Comunione della piccina di Giuseppe Rivet.
E un'immensa considerazione si riversava così sul
falegname.
Passando davanti alla chiesa sentirono cantare i
fanciulli; un cantico gridato al cielo da piccole voci acute; Madama
non volle si entrasse per non disturbare quei cherubini.
Dopo un giro nei campi, e dopo aver enumerato le
proprietà principali, il reddito della terra, la produzione del
bestiame, Giuseppe Rivet ricondusse in casa il suo branco di donne, e
le sistemò.
Il posto era poco e furono distribuite due a due nelle
camere. Rivet per una volta dormirebbe nel laboratorio sui trucioli,
sua moglie dividerebbe il letto con la cognata, e nella camera vicina
Fernanda e Raffaella dormirebbero insieme. Luisa e Flora furono messe
in cucina su un materasso disteso in terra mentre Rosa occupava da
sola un piccolo stanzino buio sopra la scala, di fronte all'entrata
di uno stretto soppalco dove avrebbe dormito per quella notte la
comunicanda.
Quando la fanciullina tornò fu coperta di baci; tutte
le donne volevano accarezzarla, per quel bisogno di tenera
espansione, e con quell'abitudine professionale alle moine, che in
treno le aveva spinte a baciare le anitre. Se la fecero sedere sulle
ginocchia, le accarezzarono i fini capelli biondi, la strinsero fra
le braccia con slanci d'affetto veemente e spontaneo. La bimba calma,
penetrata di fervore religioso come chiusa nell'assoluzione, lasciava
fare paziente e raccolta. La giornata era stata faticosa per tutti e
andarono a letto presto dopo cena. Quel silenzio sterminato dei
campi, che sembrava quasi religioso. Avvolgeva il piccolo villaggio,
un silenzio calmo, penetrante e alto sino alle stelle. Le ragazze
abituate alle serate tumultuose della casa pubblica, si sentivano
commosse da quel muto riposo della campagna addormentata.
Rabbrividivano ma non di freddo; erano brividi di
solitudine venuti dal cuore inquieto e turbato.
Non appena, due a due, furono a letto, si strinsero come
per difendersi contro questo straripare del calmo e profondo sonno
della terra. Ma Rosa la rossa, sola nello stanzino buio,poco abituata
a dormire a braccia vuote, si sentì afferrata da un'emozione vaga e
penosa. Si rivoltava nel suo giaciglio senza poter prender sonno,
quando, sentì, dietro il tramezzo di legno contro la sua testa, un
debole singhiozzare come se un bambino piangesse. Sbigottita chiamò
piano, e una vocina singhiozzante le rispose. Era la bimba che,
dormendo sempre nella camera di sua madre, aveva paura in quello
stretto soppalco.
Rosa, felice, si alzò e piano piano per non svegliare
nessuno, andò a prendere la bambina. Se la portò nel suo letto ben
caldo, la strinse sul petto e la baciò, la cullò, l'avvolse nella
sua tenerezza fatta di manifestazioni esagerate, poi calmata anche
lei, s'addormentò. E fino al mattino la comunicanda riposò con la
fronte sul petto nudo della prostituta.
Alle cinque, All'Angelus, la piccola campana della
chiesa, sonando a distesa svegliò quelle signorine che abitualmente
dormivano tutta la mattina, per riposarsi delle fatiche notturne. I
contadini, nel villaggio, erano già in piedi. Le donne del paese
affaccendate andavano di porta in porta chiacchierando vivacemente,
portando in mano con precauzione corte vesti inamidate di mussola,
rigide come cartone, o ceri smisurati con un nodo di seta a frangia
d'oro nel mezzo, e fregi nel punto dove reggerli. Il sole già alto
raggiava in un cielo azzurro che conservava all'orizzonte una tinta
rosea, come una debole traccia di aurora. Famiglie di polli
passeggiavano davanti ai pollai; e qua e là un gallo nero dal collo
lucente alzava il capo coperto di porpora, batteva le ali e gettava
al vento il suo canto di rame che altri galli ripetevano.
Arrivavano carrette dai vicini comuni, scaricando alla
soglia delle porte le alte donne normanne in abito scura con i
fazzoletti incrociati sul pettoe trattenuti da un secolare gioiello
d'argento. Gli uomini avevano infilato il camiciotto azzurro sulla
finanziera nuova o sopra la vecchia marsina di panno verde, con le
falde che ne ciondolavano fuori.
Quando i cavalli furono in scuderia, vi fu così lungo
la strada principale una doppia fila di carrettoni coperti, carrette,
calessi, tilbursys, barrocci, vetture di tutte le forme e di
tutte le epoche piegate in avanti o rovesciate indietro con le
stanghe in aria.
La casa del falegname era piena di un'attività
d'alveare. Le signore in copribusto e sottana di sotto, i capelli
sparsi sulla schiena, capelli radi e corti che si sarebbero detti
opachi e corrosi dall'uso, erano occupate a vestire la bambina.
La piccola in piedi sulla tavola, non si muoveva, mentre
la signora Tellier dirigeva i movimenti del suo battaglione volante.
Le lavarono la faccia, la pettinarono, l'acconciarono, la vestirono,
e con una quantità di spille misero a posto le pieghe della veste,
strinsero la vita troppo larga, vollero darle una certa eleganza.
Poi quando ebbero finito, fecero sedere la paziente
raccomandandole di non muoversi più; e tutte quelle donne
affaccendate corsero a prepararsi anche loro.
La piccola chiesa cominciava a sonare. Il gracile
tintinnio di campana povera, saliva e si perdeva attraverso il cielo
come una veste troppo debole, presto sommersa nell'immensità
dell'azzurro.
Le comunicande uscivano dalle porte, andavano verso
l'edificio comunale che comprendeva le due scuole e il municipio
situato in fondo al paese, mentre “la Casa di Dio” occupava
l'altro capo.
I genitori vestiti a festa con una fisionomia goffa e
quei movimenti maldestri di corpi sempre piegati sul lavoro,
seguivano i loro bimbi.
Le ragazzine sparivano in una nube di tulle candido come
panna montata, mentre i ragazzi, simili ad embrioni di camerieri, la
testa impiastricciata di pomata, camminavano a gambe larghe per non
macchiare i calzoni neri.
Era una gloria per la famiglia quando un gran numero di
parenti venuti da lontano circondava il bambino, così il trionfo di
Rivet fu completo. Il reggimento Tellier, con la padrona in testa,
seguiva Costanza; il padre dando il braccio alla sorella, la madre
camminando al fianco di Raffaella, Fernanda con Rosa, e le due Pompe
insieme sfilarono maestosamente come uno stato maggiore in grande
uniforme.
L'effetto nel villaggio fu folgorante.
Alla scuola, le ragazze si misero in fila dietro la
cuffia della suorae i maschietti dietro il cappello del maestro, un
bell'uomo che faceva figura, e si mossero intonando un cantico. Per
primi avanzavano i ragazzi in due file tra la doppia riga delle
vetture staccate; seguivano le bambine nello stesso ordine; e perché
tutti gli abitanti avevano per rispetto ceduto il passo alle signore
della città, esse venivano così immediatamente dopo le piccole,
prolungando ancora la doppia fila della processione, tre a destra e
tre a sinistra, con le loro vesti sgargianti come un mazzo di fuochi
d'artificio.
Il loro ingresso nella chiesa fece perdere la testa alla
popolazione. Si stringevano, si voltavano, si spingevano per vederle.
I devoti parlavano quasi ad alta voce stupefatti per lo spettacolo di
queste signore che avevano più fronzoli di un piviale di canonico.
Il sindaco offerse il suo banco, il primo banco a destra vicino al
coro, e la signora Tellier vi prese posto con la cognata, Fernanda e
Raffaella; Rosa la rossa e le due Pompe occuparono il secondo banco
insieme col falegname.
Il coro della chiesa era zeppo di ragazzi in ginocchio,
le fanciulle da un lato e i maschietti dall'altro, e i lunghi ceri
che tenevano in mano, sembravanolance inclinate in ogni senso.
Davanti al leggio, tre uomini in piedi cantavano a voce
spiegata, prolungando all'infinito le sillabe del latino sonoro,
eternando gli Amen im lunghissimi a-a che il serpentone accompagnava
con la sua noto monotona, tenuta senza fine, nel muggito della lunga
gola di rame. La voce acuta di un ragazzo rispondeva di tanto in
tanto, un prete seduto in uno stallo col nicchio in capo, si alzava,
borbottava qualche cosa e sedeva di nuovo, mentre i tre cantori
riattaccavano, l'occhio fisso sul grosso libro del canto fermo aperto
davanti a loro, ed appoggiato sulle ali tese di un'aquila di legno
fissata a un trespolo.
Poi si fece silenzio, tutti i presenti si misero in
ginocchio, apparve il celebrante, vecchio venerabile coi capelli
bianchi, curvo sul calice che portava sulla sinistra. Davanti a lui
camminavano i due chierichetti in abito rosso e dietro una folla di
cantori con grosse scarpe, che si allinearono ai due lati del coro.
Una campanella tintinnò in mezzo a una grande silenzio.
L'ufficio divino incominciava. L'officiante si muoveva lentamente
davanti al tabernacolo dorato, si genufletteva, salmodiava le
preghiere preparatorie, con voce rotta, tremante di vecchiaia.
Appena tacque, tutti i cantori e il serpentone
proruppero insieme; anche in chiesa qualche uomo cantava con voce
meno forte, più umile, come devono cantare i fedeli. Improvvisamente
il Kyrie Eleison salì verso il cielo, sgorgato da tutti i
petti e da tutti i cuori. Caddero perfino polvere e pezzetti di legno
tarlato dall'antico soffitto, scosso da questa esplosione di voci. Il
sole che batteva sulle ardesie del tetto, infovcava la piccola chiesa
come una fornace,e una grande emozione, un'attesa ansiosa, preludio
dell'ineffabile mistero, stringeva il cuore dei fanciulli, serrava la
gola delle loro madri.
Il prete che si era un poco seduto, salì l'altare e con
la testa nuda, coperta di capelli d'argento, e con gesti tremuli si
avvicinò all'atto soprannaturale.
Si volse verso i fedeli, e a braccia aperte, pronunciò
l'Orate Frates, pregate fratelli.
Tutti pregavano. Il vecchio curato balbettava adesso a
bassa voce le parole misteriose e supreme: la campanella tintinnò a
più riprese; la folla prosternata chiamava Dio; i ragazzi si
sentivano mancare di un'ansia sconfinata.
Fu allora che Rosa, con la fronte tra le mani, ricordò
di colpo sua madre, la chiesa del villaggio, la sua prima comunione.
Le parve di essere ritornata a quel giorno, quando era tanto piccola,
sperduta nella sua veste bianca, e si mise a piangere. Dapprima
piano, piano; le lacrime le cadevano lente dalle palpebre, poi con i
ricordi, la sua emozione aumentò, e col collo gonfio, il petto
palpitante, ella si mise a singhiozzare. Aveva tirato fuori il
fazzoletto, e si asciugava gli occhi, si premeva il naso e la bocca
per non gridare, ma fu inutile, una specie di rantolo le uscì dalla
gola; le risposero due altri sospiri, profondi, strazianti; le sue
due vicine, Luisa e Flora, prostrate accanto a lei, strette dagli
stessi ricordi, gemevano anche loro fra torrenti di lacrime. Ma il
pianto è contagioso: Madama a sua volta, si sentì presto le
palpebre umide e volgendosi verso la cognata vide che tutto il suo
banco piangeva.
Il prete creava il corpo di Dio. I ragazzi non pensavano
più, prostrati da una specie di religiosa paura sulle lastre di
pietra; qua e là nella chiesa, una moglie, una madre, una sorella,
presa dalla strana suggestione che viene dalle emozioni strazianti,
turbata anche dalla vista di quelle belle signore in ginocchio scosse
da brividi e da singhiozzi, bagnava il suo fazzoletto a scacchi e con
la mano sinistra si premeva forte il cuore che sussultava. Come una
favilla di fuoco, caduta sulla messe matura, il pianto di Rosa e
delle sue compagne si comunicò in un attimo a tutta la folla.
Uomini, donne, vecchi, ragazzi in camiciotto nuovo,
tutti in breve singhiozzarono, e sulle loro teste parve librarsi
qualche cosa di sovrumano, uno spirito che incombeva, l'alito
prodigioso di un essere invisibile e onnipotente.
Allora nel coro della chiesa risonò un piccolo colpo
secco: la suora battendo sul suo libro dava il segnale della
Comunione e i fanciulli tremando d'una febbre divina si avvicinarono
alla Sacra Mensa.
Se ne inginocchiò tutta una fila. Il vecchio curato
tenendo in mano il ciborio d'argento dorato, passava davanti a loro
porgendo ad uno ad uno tra le due dita, l'Ostia consacrata, il Corpo
di Cristo, la redenzione del mondo. Essi aprivano la bocca con
spasimo, con una contrazione nervosa, gli occhi chiusi e il viso
pallidissimo; la lunga tovaglia distesa sotto il loro mento
ondeggiava come acqua corrente.
Improvvisamente, nella chiesa corse una specie di
follia, un rumore di popolo in delirio, una tempesta di singhiozzi e
di grida soffocate. Passò, come quelle ventate che piegano le
foreste; mentre il prete restava in piedi immobile con l'Ostia in
mano paralizzato dall'emozione.
“E Dio – diceva fra se – Dio che manifesta la sua
presenza fra di noi, che discende alla mia preghiera sul suo popolo
inginocchiato”.
E balbettava invocazioni smarrite senza trovare le
parole, invocazioni dell'anima in uno slancio violento verso il
cielo.
Incominciò a distribuire la Comunione con una tale
esaltazione di fede che le gambe quasi gli si piegavano,e quando lui
ebbe bevuto il Sangue del suo Signore, si perse in un atto estatico
di ringraziamento.
Dietro a lui il popolo a poco a poco si calmava. I
cantori,che spiccavano nella dignità della cotta bianca, ripresero
il canto con voce meno sicura e ancora umida, e anche la voce del
serpentone sembrava rauca come se esso pure avesse pianto.
Allora il prete alzando le mani, fece loro segno di
tacere, e passando tra le due file di comunicandi assorti in
un'estasi di felicità, si avanzò fino alla balaustra del coro.
La gente sedeva fra i rumori di seggiole, mentre tutti
ora, si soffiavano forte il naso. Quando videro il curato fecero
silenzio ed egli cominciò a parlare con voce molto bassa, esitante,
velata.
“Miei cari fratelli, mie care sorelle, ragazzi miei,
vi ringrazio dal fondo del cuore: mi avete datola più grande gioia
della mia vita. Ho sentito Dio scendere su di noi al mio richiamo.
Egli è venuto, era qui presente, empiva le vostre anime, faceva
traboccare le vostre lacrime. Sono il prete più vecchio della
diocesi e oggi anche il più felice. E' accaduto un miracolo fra noi,
un vero, un grande, un sublime miracolo! Mentre Gesù Cristo entrava
per la prima volta in questi fanciulli, lo Spirito Santo, la Colomba
celeste, il Soffio di Dio è sceso su di voi, vi ha commossi,
afferrati, piegati come canne sotto la brezza”.
Poi con voce calma, volgendosi verso i due banchi dove
si trovavano le invitate del falegname: “ Grazie sopratutto a voi,
mie care sorelle, che siete venute così di lontano, la cui presenza,
la cui fede aperta, la pietà così viva, sono state per tutti un
esempio salutare.
Voi siete l'edificazione della mia parrocchia, la vostra
emozione ha infiammato i cuori, senza di voi, forse, questo gran
giorno non avrebbe avuto questa impronta veramente divina. Basta a
volte una sola pecora eletta perché il Signore discenda sul suo
gregge”.
La voce gli mancava. Aggiunse: “E' questa la grazia
che vi auguro. E così sia”.
Risalì sull'altare per terminare la funzione.
Ora la gente aveva premura di andar via. I ragazzi
stessi cominciavano ad agitarsi stanchi di una così lunga tensione
d'animo. D'altronde, avevano fame e i genitori a poco a poco se ne
andavano, per finire i preparativi del pranzo senza aspettare
l'ultimo vangelo.
All'uscita vi fu ressa, una ressa rumorosa, un frastuono
di voci stridule dove cantava l'accento normanno.
La popolazione formava siepe ai due lati e, quando
apparvero i ragazzi, ogni famiglia si precipitò sul suo.
Costanza si trovò afferrata, circondata, baciata da
tutta quella parentela di femmine. Rosa sopratutto non smetteva di
stringerla. Infine prese una mano, la signora Tellier si impadronì
dell'altra, Raffaella e Fernanda sollevarono la sua lunga sottana di
mussola perché non strascicasse nella polvere. Luisa e Flora con la
signora Rivet chiudevano il corteo e la bimba raccolta e penetrata
dal Dio che portava in se si mise in cammino fra questa scorta
d'onore. Il banchetto era apparecchiato nel laboratorio, sopra lunghe
tavole appoggiate sui cavalletti.
La porta aperta sulla strada lasciava entrare l'allegria
di tutto il villaggio. Da per tutto si banchettava. In tutte la case
si vedevano tavolate di gente vestita a festa, e si udivano uscir le
grida delle famiglie in baldoria. I contadini, in maniche di camicia,
bevevano sidro puro a bicchierini colmi, e in ognuna di quelle
brigate si vedevano due ragazzi, due bimbe o due maschietti, invitati
in una delle due famiglie riunite.
Ogni tanto, sotto il caldo pesante del mezzogiorno, un
carro attraversava il paese al trotto balzellante di un vecchio
cavalluccio, e l'uomo in camiciotto che guidava, gettava uno sguardo
d'invidia su tutto quel ben di Dio in mostra.
Nella casa del falegname, l''allegria conservava una
certa aria di riservatezza, un resto dell'emozione del mattino.
Soltanto Rivet era eccitato e beveva esageratamente. La signora
Tellier guardava di continuo l'ora, perché se non voleva far vacanza
due giorni di seguito, doveva prendere il treno delle quindici e
cinquantacinque per arrivare a Fécamp verso sera.
Il falegname si sforzava con ogni mezzo di distrarla per
trattenere le sue invitate sino al giorno dopo; ma Madama non si
lasciava divagare; non scherzava mai quando si trattava di affari.
Appena preso il caffè diede ordine alle sue pensionanti
di preparasi in fretta, poi voltandosi verso suo fratello disse:
“Tu vai subito ad attaccare”, ed anche lei andò a
terminare i suoi ultimi preparativi.
Quando discese, la cognata l'attendeva per parlare della
piccina, e parlarono a lungo insieme, ma non conclusero nulla di
definitivo. La contadina giocava d'astuzia, falsamente intenerita, e
la signora Tellier, che teneva la bambina selle ginocchia, non si
impegnava a nulla prometteva vagamente: sì, se ne occuperebbe della
bambina, c'era tempo, del resto si sarebbero riviste.
Intanto il barroccio non arrivava e le donne non
scendevano e si sentivano al piano di sopra a ridere, urtarsi,
gridare, batter le mani. Allora, mentre la moglie del falegname
andava nella scuderia per vedere se il barroccio era pronto, Madama,
alla fine, salì al primo piano.
Rivet, parecchio ubriaco e mezzo svestito, cercava
inutilmente di violentare Rosa che veniva meno dal ridere. Le due
Pompe lo tenevano per le braccia e tentavano di calmarlo, indignate
di questa scena dopo la cerimonia del mattino; ma Raffaella e
Fernanda lo incitavano e ridendo come pazze si tenevano i fianchi e
lanciavano acuti strilli a ogni sforzo dell'ubriaco. Furibondo, con
la faccia rossa, completamente sbottonato, l'uomo scoteva
violentemente le due donne aggrappate a lui e con tutte le sue forze
tirava la gonna di Rosa barbugliando.
“Non vuoi sporcacciona?”.
Madama, indignata, afferrò suo fratello per le spalle e
lo gettò fuori così violentemente che lo mandò a sbattere contro
il muro.
Un minuto dopo, lo si sentì nel cortile pomparsi
l'acqua sulla testa; e quando tornò col barroccio era completamente
calmato.
Si rimisero in moto come alla vigilia e il cavallino
bianco ripartì con la su andatura rapida e briosa. Sotto iul sole
ardente, l'allegria, assopita durante il pranzo, si risvegliò.
Adesso le ragazze si divertivano alle scosse del barroccio,
spingevano le sedie l'una contro l'altra scoppiando continuamente a
ridere, ancora eccitate dai vani tentativi di Rivet.
Una luce violenta copriva i campi, una luce che
abbagliava e le ruote sollevavano due scie di polvere che volteggiava
a lungo sulla via maestra dietro al veicolo.
A un tratto, Fernanda, che amava la musica, pregò Rosa
di cantare, e Rosa intonò vigorosamente “ Il grosso curato di
Mendon”.
Madama la fece immediatamente tacere perché questa
canzone le sembrava poco adatta in un giorno come quello. Aggiunse:
“Canta piuttosto qualche cosa di Béranger”.
Allora Rosa, dopo aver esitato un attimo, si risolse e
con voce frustata cominciò la “Nonna”.
Una
sera nel dì della sua festa,
di
vino schietto bevuto due dita,
mia
nonna disse scuotendo la testa:
quanti
amorosi ho avuto in mia vita!
Come
rimpiango il braccio paffuto,
la
gamba ben fatta
e
il tempo perduto!
E il coro delle ragazze che Madama stessa guidava,
riprese:
Come
rimpiango il braccio paffuto,
la
gamba ben fatta e il tempo perduto!
“Questa sì che è buona “ dichiarò Rivet, eccitato
dal ritmo, e Rosa continuò:
Ma
come, saggia non siete stata?
No,
certamente! Delle mie grazie
a
quindici anni conobbi l'uso
ché
non dormivo la notte davvero!
Tutti insieme urlarono il ritornello e Rivet batteva il
piede sulla stanga, batteva il tempo con le redini sul dorso del
cavallino bianco, che, come trasportato anche lui dalla foga del
ritmo, spiccò il galoppo tempestosi, mandando le signorine a cadere
in mucchio le une sulle altre in fondo al barroccio.
S rialzarono ridendo come pazze. E la canzone continuò,
gridata a squarciagola attraverso la campagna, sotto il cielo
ardente, in mezzo ai raccolti che maturavano, al galoppo furioso del
cavallino che adesso, ad ogni ripresa del ritornello, si impennava e
si ostinava ad accompagnarlo con cento metri di galoppo con gran
divertimento di tutti.
Di tanto in tanto, qualche spaccapietre si raddrizzava e
guardava attraverso la maschera di filo di ferro quel barroccio
indiavolato e urlante trascinato in una nube di polvere.
Quando scesero davanti alla stazione il falegname si
intenerì:
“E' un peccato che andiate via, ci si sarebbe
divertiti”.
Madama gli rispose giudiziosamente:
“Ogni cosa a suo tempo, non si può sempre
divertirsi”.
Allora un'idea illuminò il cervello di Rivet.
“Benissimo, verrò a farvi una visita a Fécamp, il
mese prossimo”.
E guardò Rosa con aria furba e con occhio acceso e
sguaiato.
“Va bene – concluse Madama – ma bisignerà essere
ragionevole, se vuoi venire, verrai, ma niente stupidaggini”. Egli
non rispose, e poiché si sentiva il fischio del treno si mise
immediatamente ad abbracciare tutte le ragazze. Quando toccò a Rosa,
si ostinò a cercarle la bocca che lei, ridendo a labbra chiuse, gli
negava ogni volta con un rapido scarto di fianco.
Egli la stringeva per le braccia ma non riusciva a
raggiungere lo scopo, impacciato dalla lunga frusta che aveva tenuto
in mano e che nei suoi sforzi agitava disperatamente dietro le spalle
della ragazza.
“I viaggiatori per Rouen in vettura!” gridava
l'impiegato. Esse salirono. Si udì il sibilo del fischietto, subito
seguito da quello potente della macchina, che mandò fuori
rumorosamente un primo getto di vapore, mentre le ruote cominciarono
a girare adagio con visibile sforzo.
Rivet uscì dalla stazione, corse allo steccato per
vedere ancora una volta Rosa; e quando il vagone pieno di quella
mercanzia umana passò davanti a lui, si mise a schioccare la frusta
e a ballare cantando con tutte le sue forze:
Come
rimpiango il braccio paffuto,
la
gamba ben fatta
e
il tempo perduto!
Poi
rimase a guardare un fazzoletto bianco che si allontanava.
III
Dormirono
tutte, fino all'arrivo, il pacifico sonno delle coscienze
soddisfatte. E quando rientrarono in casa fresche e riposate per il
lavoro di ogni sera, Madama non poté trattenersi dal dire:
“Eppure,
sentivo già la mancanza della casa”.
Cenarono
in fretta e indossata nuovamente la tenuta da battaglia, attesero i
clienti abituali; e la piccola lanterna da tabernacolo, avvertì i
passanti che il gregge era rientrato all'ovile.
In
un batter d'occhio la notizia si sparse, non si sa come, e per mezzo
di chi. Il signor Philippe, il figlio del banchiere, spinse la
cortesia fino a informare con un espresso il signor Tournevau,
prigioniero in famiglia. Il commerciante di pesce salato aveva ogni
domenica parecchi cugini a cena; bevevano il caffè quando si
presentò un uomo con una lettera in mano. Il signor Tournevau molto
emozionato aprì la busta e impallidì: non v'erano che queste parole
scritte a lapis:
“Carico
di merluzzo ritrovato; bastimento rientrato in porto; ottimo affare
per voi. Venite subito”.
Si
frugò in tasca, regalò venti centesimi all'uomo che l'aveva portato
e arrossendo improvvisamente sino alle orecchie disse:
“Bisogna
che esca”.
E
tese alla moglie il misterioso e laconico biglietto. Dopo suonò e
quando apparve la donna di servizio:
“Presto
– disse -, presto il soprabito e il cappello”.
Appena
nella strada si mise a correre zufolando un'arietta, e la via gli
parve due volte più lunga tanto era la sua impazienza.
Casa
Tellier aveva un'aria di festa. A piano terreno le voci chiassose
degli uomini del porto facevano un assordante baccano. Luisa e Flora
non sapevano a chi dar retta, bevevano con l'uno e bevevano con
l'altro, meritando più che mai il nomignolo di Pompe. Le chiamavano
da ogni parte nello stesso tempo e già non potevano più supplire al
lavoro; la notte si annunciava faticosa.
Il
cenacolo del primo piano fu al completo verso le nove.
Il
signor Vasse, il giudice del tribunale di commercio, lo spasimente in
titolo ma platonico, di Madama, parlava con lei a bassa voce in un
angolo e si sorridevano come vicini a concludere un accordo. Il
signor Puolin, l'ex sindaco, teneva Rosa a cavalcioni sulle gambe e
lei, a faccia a faccia con lui, passava le sue mani tozze nei
favoriti bianchi del bonomo. Un pezzo di coscia nuda usciva dalla
gonna di seta gialla rialzata, spiccando sul panno nero dei calzoni e
le calze rosse erano fermate dalle giarrettiere azzurre, regalo del
commesso viaggiatore.
La
grande Fernanda, distesa sul divano, poggiava i piedi sul ventre del
signor Pimpesse, l'esattore delle imposte, e il busto sul panciotto
del signor Philippe, cingendogli il collo con la mano destra,mentre
nella sinistra teneva la sigaretta.
Raffaella
sembrava in trattative col signor Dupuis, l'agente di assicurazioni e
finì il discorso con queste parole:
“Si
bello mio, questa sera ne ho voglia”.
Poi
facendo un rapido giro di valzer attraverso il salotto gridò:
“Questa
sera tutto ciò che volete”.
Si
aprì improvvisamente la porta e apparve il signor Tournevau.
Esplosero
grida di entusiasmo.
“Viva
Tournevau!”:
E
Raffaella che piroettava sempre, andò a cadere sul suo petto. Egli
l'afferrò, la strinse in un formidabile abbraccio e senza dire una
parola la sollevò da terra come una piuma, attraversò il salotto,
raggiunse la porta in fondo, e tra gli applausi, disparve su per la
scala delle camere, col suo fardello vivente.
Rosa
occupata ad eccitare l'ex sindaco, baciandolo e ribaciandolo e
tirandogli i favoriti per tenergli ritta la testa, approfittò
dell'esempio:
“Andiamo,
fa come lui” gli disse. Allora il brav'uomo si alzò e
accomodandosi il panciotto seguì la ragazza, frugandosi nella tasca
dove dormiva il denaro.
Fernanda
e Madama rimasero sole con i quattro uomini.
“Pago
lo champagne!” gridò il signor Philippe. “Signora Tellier,
mandatene a prendere tre bottiglie!”: Fernanda abbracciandolo gli
chiese in un orecchio:
“Senti,
ci vuoi far ballare?”.
Egli
si alzò e sedendosi davanti alla secolare spinetta addormentata in
un angolo, fece uscire un valzer, un valzer roco e piagnucoloso, dal
ventre gemente dello strumento.
La
grossa ragazza abbracciò l'esattore delle imposte, Madama si
abbandonò nelle braccia del signor Vasse, e le coppie volteggiarono
scambiandosi baci.
Il
signor Vasse che aveva un tempo ballato in società, faceva il
grazioso e Madama lo guardava con occhio benigno, quell'occhio che
dice “sì”, un “sì” più discreto e più deliziosi di
qualunque parola.
Federico
portò lo champagne. Il primo tappo partì e il signor Philippe
attaccò il preludio di una quadriglia.
I
quattro ballerini lo eseguirono con eleganza, con dignità, come si
deve, cerimoniosamente fra inchini e saluti. Dopo di che si misero a
bere.
Allora
riapparve il signor Tournevau soddisfatto, sollevato, radioso.
Esclamò: “Non so cosa abbia fatto Raffaella, ma questa sera è
perfetta!”.
E
poiché gli avevano offerto un bicchiere di champagne lo vuotò in un
sorso mormorando:
“Perbacco
che lusso!”.
Immediatamente
il signor Philippe attaccò una polca vivace, e il signor Tournevau
si slanciò con la bella ebrea, tenendola sospesa, senza lasciarle
toccare i piedi in terra.
Il
signor Pimpesse e il signor Vasse avevano ripreso a ballare con nuovo
slancio. Di tanto in tanto una delle coppie si fermava vicino al
caminetto per tracannare un calice di vino spumeggiante, e il ballo
sembrava non dover più finire, quando Rosa, con un candeliere in
mano aprì la porta. Era spettinata, in camicia e pantofole,
eccitatissima e rossa.
“Voglio
ballare anch'io” gridò.
“E
il tuo vecchio?” domandò Raffaella.
“Dorme
già, lui dorme subito”, rispose Rosa ridendo sguaiatamente.
Afferrò
il signor Dupuis rimasto inoperoso sul divano e la polca ricominciò.
Ma le bottiglie erano vuote.
“Ne
pago una io!” dichiarò il signor Tournevau.
“Anch'io!”,
annunciò il signor Vasse.
“Altrettanto
io!”, concluse il signor Dupuis.
Allora
tutti applaudirono.
Il
ballo si organizzava; diventava un vero ballo. Di tanto in tanto,
anche Luisa e Flora salivano in fretta, facevano rapidamente un giro
di valzer mentre i loro clienti in basso si impazientivano, poi esse
ritornavano correndo nel caffè col cuore gonfio di rimpianto.
A
mezzanotte ballavano ancora. Talvolta una ragazza spariva e quando la
si cercava per una quadriglia, ci si accorgeva improvvisamente che
anche uno degli uomini mancava.
“Da
dove venite?” chiedeva scherzando il signor Philippe proprio nel
momento in cui il signor Pimpesse rientrava con Fernanda.
“Da
veder dormire Poulin”, rispose l'esattore delle imposte.
Lo
scherzo ebbe un successo enorme e tutti a turno salirono con l'una o
l'altra signorina, che quella notte erano in una compiacenza
inaudita, per vedere dormire Poulin. Madama chiudeva un occhio; essa
aveva negli angoli del salotto lunghi colloqui col signor Vasse, come
se dovessero stabilire gli ultimi particolari di un affare già
fissato.
Finalmente
all'una, i due ammogliati, il signor Tournevau e il signor Pimpesse,
dovettero andarsene e vollero regolare il conto.
Fu
calcolato solo lo champagne e per di più a sei franchi la bottiglia
invece che a dieci, prezzo solito.
E
poiché essi si meravigliavano di questa generosità, Madama
raggiante rispose:
“Non
è festa tutti i giorni”.
Finito
di stampare
il
21 Marzo 1944 nello stabilimento A: Staderini
via
Baccina, 45
Roma
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